#10) AFGHAN WHIGS
In Spades
[Sub Pop]
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Con l’ottavo album Greg Dulli entra ancora nella top ten dell’anno. Un sound deciso e carico di personalità , a tratti retrò, da telefilm poliziesco americano anni ’70, con sfumature noir, carico di fiati, archi, orchestralità . E qull’eterno dialogo decadente tra “You” and “Me”, tra incubi e perversioni sessuali. Tutta l’anima degli Afghan Whigs riproposta come ai vecchi tempi, il piatto forte per nostalgici di ogni età .
Nostalgico.

#9) COURTNEY BARNETT AND KURT VILE
Lotta Sea Lice
[Matador]
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Non sempre due grandi artisti messi insieme producono buoni album. L’uno finisce per prevalere sull’altro. Nel caso invece di Kurt Vile e Courtney Barnett ciò non accade, anzi, sembra suonino insieme da sempre. L’album ha una struttura cantautorale semplice, slacker, sembra registrato in presa diretta in sala di registrazione, senza alcuna post produzione. Si ascolta tutto d’un fiato e quando finisce si dice: “di già “?
L’incastro di Courtney e Kurt è perfetto come Yin e Yang, lo si vede fin dalla copertina dove uno è vestito di bianco su sfondo nero e l’altra di nero su sfondo bianco.
Assaporabile.

#8) BECK
Colors
[Capitol]
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Questo personaggio ha alle spalle ormai 25 anni di uscite discografiche, dove con la recentissima Colors ha raggiunto la 13 pubblicazione. Si tratta di Beck Hansen in arte semplicemente Beck. Fin dai primi giri (di vinile) si riconosce il marchio di fabbrica del folletto californiano che ancora lascia spazio a sperimentazione e nuove sonorità . Abbandonato il periodo meditativo folk-pop delle ultime pubblicazioni, Beck riprende a creare con il suo spirito dadaista, con quei suoni ready-made che vanno dritti al cuore.
Sorprendente, ancora.

#7) PROPHETS OF RAGE
Prophets Of Rage
[Fantasy Records]

I Prophets Of Rage, in pratica i Rage Against The Machine meno Zac De La Rocha più i Public Enemy e B Real dei Cypress Hill non potevano deludere. Malgrado I malumori della critica, a me l’album è piaciuto molto, riavvolgendo il nastro del tempo fino agli inzi degli anni ’90 dove il cosiddetto funk metal dilagava come antitesi del grunge. Alla fine il vuoto lasciato dai RATM viene colmato nello spazio di pochi brani di questo album solido e potente. Con pace all’anima di Chris Cornell, questo esperimento è decisamente meglio riuscito rispetto agli Audioslave. Alzate il volume e gustatevelo.
Assaporabile.

#6) RIDE
Weather Diaries
[Wichita]
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Il movimento dei guardatori di scarpe ha fatto in questo 2017 un ritorno in grande stile.
Ma del trittico di grandi ritorni che chiamerei “Shoegazer Strikes Back” composto da Slowdive, The Jesus And Mary Chain e Ride, quest’album se vogliamo è quello più estremo. Non cerca affatto di piacere a chi 25 anni fa non c’era, mira piuttosto a proseguire un cammino che gli stessi Gardner, Bell, Colbert e Queralt avevano abbandonato cercando di far piacere il loro sound ad un pubblico più vasto. Come se il sound della “scena che celebrava se stessa” fosse improvvisamente maturato da solo, come un frutto giù dall’albero, senza però perderne il sapore originario.
Tecnicamente l’album non ha nulla da accepire, prodotto da quel mago di Erol Alkan, con il tocco finale della leggenda Alan Moulder che già  ha reso da mitologia il sound di “Going Blank Again”.
Da ascoltare ripetutamente.

#5) SLOWDIVE  
Slowdive 
[Dead Oceans]
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Morbido come il velluto, talvolta sensuale, il sound di questo disco ti avvolge e riscalda come poche cose sentite nel 2017. I BPM sono molto dilatati, nella trama di riverberi e delay che hanno fatto grande la band di Reading, UK.
La struttura shoegazer è intatta e tocca le corde dei nostalgici del movimento soffocato nel suo periodo d’oro dal grunge e dall’esplosione del british pop.
Bastano appena otto tracce e 46 minuti per tornare a significare qualcosa nel panorama della musica alternativa, dando solidità  alla reputazione della band, specie con il capolavoro “Sugar For The Pill”.
Consolidato.

#4) THE HORRORS
V
[Wolf Tone]
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“Press Enter To Exit”: questo titolo di brano è forse la migliore metafora per descrivere l’album. Sembra infatti paradossale usare chitarre cyberpunk su sonorità  elettroniche, quasi dance. Ed altrettanto bizzarro accelerare e rallentare il ritmo da un brano all’altro.
Il quinto album della band del talentuoso Faris Badwan sembra davvero quello della consacrazione e difficilmente ce lo saremmo potuto aspettare dopo le riuscitissime uscite discografiche della band dell’Essex.
Un vortice sonoro, carico e abrasivo, che alla fine lascia senza fiato.

#3) WOLF ALICE
Visions Of A Life
[Dirty Hit]
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Ti piacciono i Sonic Youth? Pensi che i Nirvana siano una delle migliori band degli ultimi 30 anni? Il british pop ti aveva rapito? Beh, allora “Vision Of A Life” è l’album per te!
La band londinese è appena al secondo album, ma sembra una rockband consolidata, dal sound maturo e potente che conquista a ogni giro. La voce melodica e potente di Ellie Roswell tira le fila e si lascia canticchiare anche a lettore spento.
E’ sorprendente la leggerezza con la quale si ascolti a ripetizione questo album, senza soluzione di continuità . E quindi grazie al numero di riproduzioni sale sul gradino più basso del podio del 2017.
A ripetizione.

#2) FOUR TET
New Energy
[Text Records]
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Kieran Hebden è una delle migliori menti degli anni 2000. La sua vena creativa sembra non esaurirsi mai, anzi, trova sempre nuova linfa, nuova energia. Come se fosse nutrita costantemente da quell’enorme capezzolo che il nostro ha messo un po’ celato sulla copertina di questo ottimo nono disco dell’artista inglese di origini indiane.
Seppur molto elettronico, l’album appare multietnico, orientaleggiante, con sfumature jazz, dubstep e addirittura trance.
Ma cattura istantaneamente, come se dalle casse uscisse una trama che ricopre la pareti e arreda la stanza. Gli spazi si riempiono i fretta e si sprofonda nel sound sinteticamente caldo di Four Tet.
Imperdibile.

#1) LONDON GRAMMAR
Truth Is A Beautiful Thing
[Ministry Of Sound]

All’inizio lo si odia. Così lento, morbido, dai colori vividi. Poi però la voce suadente di Hannah Reid, con quel timbro vocale che ricorda Florence Welch, piano piano comincia a entrarti nella testa. Ad ogni giro di vinile (questo è il supporto che consiglio per l’album) si coglie una sfumatura diversa, la semplicità  del sound scava un enorme solco dove i vocalizzi della Reid possono espandersi e catturare le tue emozioni.
Piano piano, con la lentezza disarmante che lo caratterizza, il disco prende corpo e vince la nostra iniziale impazienza.

Let winter break
Let it burn 'til I see you again
I will be here with you
Just like I told you I would
I'd love to always love you
But I'm scared of loneliness
When I'm, when I'm alone with you

I testi parlano di cuori infranti, di lui che non capisce la sensibilità  di lei. Luoghi comuni che accompagnano i solchi fino alla fine di quest’album invernale, crepuscolare, da ascoltare a lume di candela, sperando in qualche granellino di polvere sulla superficie del vinile, giusto per renderlo umano.
Lo si odia talmente tanto che si finisce per amarlo alla follia.