Fine 2017. Corro ai ripari con delle veloci recensioni di un trittico di ottimi dischi “dream-pop”, che meritavano sicuramente la mia attenzione già  al tempo dell’uscita, ma che, per mancanza tempo o perchè traviato da chissà  cos’altro, non avevano ancora trovato spazio sul sito. Rimediamo al grido di “meglio tardi che mai“.

Si rimane incantati di fronte alla proposta dei danesi ONBC. Il loro nuovo album, seguito del già  valido “Crash, Burn and Cry” sembra uscire da un perfetto incrocio tra le visioni più eteree e magiche di una band come i Cocteau Twins e, in parte, il sogno vellutato sprigionato dalla raffinatezza sognante dei Mazzy Star. Riuscite a immaginare cosa potrebbe succedere prendendo e unendo questi due capisaldi del dream-pop? Se ne avete anche una minima idea date un ascolto “Travelmate” e lasciatevi trasportare. Nei brani più cadenzati e dilatati il richiamo alle movenze slow dei Mazzy Star si fa sentire (“Camber Sands” su tutte), anche se poi permane una personalità  che mostra un gusto più pop e anche sbarazzino, se ci concedete il temrine, rispetto alla band guidata da Hope Sandoval, basti prendere un brano come “Tombstone” ad esempio, delizioso e dolce come una squisita caramella pop o l’incedere più pimpante di “Far Apart”, che assume contorni quasi pop-rock più classici e canonici. La bravura della band è proprio quella di lavorare in modo pregevole sulle atmosfere (conoscono bene anche il genere Americana i nostri), sulle melodie e anche sulle voci: i ritmi restano per lo più bassi e l’atmosfera avvolgente, arrivando in certi momenti ad essere letteralemtne abbracciati dal suono e dalle voci (“Vapour Trails”). Magnifica la chiusura sonica e shoegaze (chitarre riverberate avevano già  fatto capolino anche in “The Scythe”) di “Minehead”, che conferma la versatilità  mai banale e mai improvvisata di una band che in questo disco ha fatto un centro perfetto. VOTO: 8

Siete rimasti delusi dall’ultimo album dei Pains Of Being Pure At Heart? Beh, provate a rimediare con questa delizia indie-pop del buon Brian Hancheck che usa lo pseudonimo di The Arctic Flow. Attenzione, non ritroverete i Pains del primo disco, queslli iper sonici e rumorosi, ma avrete una sensazione di ascoltare dei demo o delle versioni da “cameretta” di brani che tranquillamente sarebbero potuti finire nel secondo e nel terzo album della band di Kip Berman. Tutto molto twee, artigianale e dolcemente fragile, mentre le situazioni della vita e dell’amore ci passano davanti, musicate con quella devozione alla Sarah Records e una band come i Brighter che per noi è sempre fonte di pelle d’oca. VOTO: 7

Giovanissimi questi Samuel Jones e Charlie Carmichael, entrambi ventiduenni, eppure decisamente sulle coordinate vicine alla perfezione per quanto riguarda un sound capace di unire un lato più dream a uno decisamente più popedelico. I due, tra l’altro, sono descritti anche come grandi collezionisti di dischi e immaginiamo proprio che tutta la loro passione sia finita coinvogliata in questo progetto che sia chiama Rocket Ship TV, nato come momento di svago e di sperimentazione rispetto alla loro band principale, i Velvet Morning. Sicuramente una band che i due hanno ascoltato assai paiono essere i Galaxy 500. Tra andature alla moviola (la visionaria “First Time”), voci eteree e accenni jangle (“Glasgow Botanic” ha questa deliziosa andatura pastorale che rinfranca il cuore e lo spirito), i nostri due ragazzi lavorano bene sul lato più pop (“Marine Parade”), aumentano il rumore delle chitarre e ci portano dritti negli anni ’90 (“Some People Never Change”) e poi ci portano in riva al mare per farci cullare dalle onde mentre in radio passano i Real Estate (“Always On Your Side”). Un disco molto piacevole che, sia chiaro, non aggiunge nulla di nuovo e paga inevitabili tributi anche ben riconoscibili, ma si dimostra curato e coinvolgente. VOTO: 7,5