Ci hanno provato, ma non è andata. Il morale della favola è questo. In un periodo in cui gli anni ’90 e il brit pop sono tornati prepotentemente di moda ecco che i Viva Brother (ormai dispersi in missione da tempo), come fossero sciacalli ben appostati, si rifanno vivi, per cercare di capire se possono raccogliere qualche briciola di notorietà . Niente da fare. La loro reunion, al momento, pare non aver lasciato traccia e la cosa non stupisce, visto che il nuovo disco, tutto sommato, si muove sulla falsariga del già  innocuo “Famous First Words” (esordio del 2011).

Andiamo con calma. I Viva Broher nascevano nel 2010 a Slough e fin dai loro esordi la stampa s’interessa a loro, inserendoli in un filone post-britpop (loro si definivano ‘grit-pop‘, sigh!) in cui i nostri dimostravano di starci anche piuttosto bene, con dei singoli azzeccati. Poi in realtà  il gioco dura poco, perchè l’album d’esordio, seppur prodotto da Stephen Street (che non poteva fare miracoli, poveraccio) si dimostra inconsistente e la personalità  della band latita drammaticamente, così come certe melodie. Copiare (senza cuore e in modo piuttosto scolastico) i pesi massimi degli anni ’90 non basta. Nel 2012 la festa finisce. Non stiamo qui a ricordare le strade prese in seguito, ma ecco che quest’anno la band annuncia il proprio ritorno e tutto puzza terribilmente di artefatto, nella speranza di accodarsi in extremis a un revival britpop che, almeno in UK, pare ora essere piuttosto florido.

“II” ha il solito problema che affliggeva l’album d’esordio. Un paio di pezzi decenti, poi il resto sono nulla più che riempitivi che vanno a pescare un po’ ovunque, con la speranza che melodie di seconda mano (e nemmeno troppo incisive, sopratutto nel finale dell’album) possano risvegliare un po’ d’interesse almeno nel giochetto classico di “ehi, questi mi ricordano…“. Troppo poco. La speranza della band è che qualcuno notasse, se non altro, un briciolo di maturità  (la personalità  proprio non sta di casa qui, lo ribadiamo) nel lavoro, ma certi testi inducono a pensare a una regressione più che a una maturità . Questa volta il tentativo di clonaggio arriva perfino a toccare i Dandy Warhols (“Rose”) e i Sulk (“Silver Silk” che ha un riff nel ritornello che mi rimanda a “The Hindu Times” degli Oasis), oltre ai riferimenti che già  abbondavano nell’esordio. Il fatto è che qui magari i nostri avrebbero in mente Noel, ma poi arrivano giusto a sovrapporsi alle b-side dei Thurman (che Dio li abbia in gloria).

Qualcosa di dignitoso a tratti appare. Il pimpante incedere acustico di “A Little Soul e il classico guitar-pop di “I Don’t Wanna Be Loved” che piazza, se non altro, una bella melodia e va proprio sul sicuro, ma non si sente la passione in queste canzoni e la voglia di riascoltare il tutto proprio non arriva.

Non ci aspettavamo niente e niente è stato.