E siamo ad otto album in studio per i californiani Black Rebel Motorcycle Club (da qui in poi per comodità  BRMC), e, sinceramente, per rendicontarvi il numero esatto delle sortite discografiche della band composta da Robert Turner, Peter Hayes e dall’ex batterista dei Raveonettes Leah Shapiro ho dovuto buttare un occhio su Wikipedia, in quanto è da tempo immemore che chi vi scrive non ne seguiva con particolare attenzione le gesta artistiche.
Ricordo come se fosse ieri un giorno di fine dicembre di ben diciassette anni fa, quando mi recai dal mio pusher musicale di fiducia per acquistare l’omonimo esordio dei tre rockers di nero vestiti; al tempo dietro le pelli sedeva ancora il britannico Nick Jago e il duemilauno sembrava davvero segnare l’ennesima eccitante rivoluzione rock a base di chitarre, l’anno vide infatti oltre che l’esordio dei BRMC anche quello, ben più roboante, degli Strokes e la definitiva affermazione dei White Stripes con “White blood cells“, la nuova santissima trinità  rock’n’roll era quindi servita alla gioventù sonica di allora.
Il tempo poi non è però stato così tanto galantuomo, passato l’hype la consistenza dei tre soggetti musicali in questione si è via via sgretolata, tra passaggi a vuoto e scioglimenti vari (a proposito, che fine ha fatto Meg White?) e ad oggi l’unica cosa che rimane è il ricordo dei bei tempi andati.
Eppure le premesse per un grande successo c’erano tutte, la partenza era addirittura facilitata dalla presenza del marchio Virgin Records sui due primi album, tuttavia anno dopo anno i BRMC sono sempre più velocemente scivolati in quella categoria di gruppi buoni per riempire le quinte e seste righe dei cartelloni dei grandi festival, con la ragione sociale non scritta abbastanza in piccolo da dover prendere la lente d’ingrandimento, ma nemmeno abbastanza in grande da risaltare tra i nomi principali.
Questa condizione ormai di perenne anonimato pare purtroppo aver definitivamente colpito la musica dei tre, i quali sembra che non riescano nemmeno più a tirar fuori il colpo ad effetto capace di rimanere nelle orecchie dell’ascoltatore una volta risposto il dischetto nella custodia, non sono difatti presenti nemmeno quei pezzi capaci di risollevare anche solo parzialmente le sorti di lavori discreti come in passato (non ci sono nè una “Berlin” nè una “Aint’no easy way in scaletta), e alla fine l’effetto è quello di aver ascoltato per tutta l’ora scarsa di durata del disco sempre la stessa canzone declinata per ben dodici volte con minime variazioni sul tema. Si tenta la sferzata giusto nel finale con l’arrembante “Little thing gone wild“, ma ormai è troppo tardi, ed anche qui la sgradevole sensazione di già  sentito non permette al brano di risultare incisivo.

Wrong Creatures” è l’ennesima dimostrazione che, se mai ce ne fosse stato ancora bisogno, che per i BRMC il meglio è ormai alle spalle, e che forse è il momento di porre fine ad un’avventura che non ha più molto da dire in termini di freschezza e creatività  artistica.