Pecca di presunzione il figlio di papà  Casablancas quando non capisce come mai la gente apprezzi gli Strokes e non ami i suoi Voidz. La risposta è semplice: è solo questione di buongusto, caro Julian, perchè a tratti fai davvero di tutto per farci incazzare.

La politica del “ognuno troverà  pane per i suoi denti in questo disco” fa si che si salti davvero di palo in frasca e se a tratti la cosa ci piace e convince, beh, in altri ti viene voglia di prendere il disco e buttarlo nell’immondizia. Il nostro cerca pure di cantare al meglio delle sue (scarse) possibilità , risultando anche simpaticamente eclettico e schizzato come le montagne russe sonore a cui costringe i suoi ascoltatori, non solo di brano in brano, ma anche nelle canzoni stesse. I fan degli Strokes sputeranno sangue per arrivare vivi in fondo, nonostante qualcosa che rimandi alla band madre ci sia (“Leave It In My Dreams” non è affatto male), ma la bulimia sonora immaginiamo sia davvero eccessiva per chi sperava in un Julian più rassicurante.

Un Beck strafatto di crack e Red Bull, in preda a folli visioni a braccetto con il metal (“Pyramid Of Bones” e “All Wordz Are Made Up”), noiosi Atari Teenage Riot in un eccesso di lo-fi (“Black Hole”), una spruzzata di groove saltellante (“All Wordz Are Made Up“), cafonate assortite che sanno di tamarro lontano un chilometro (“QYURRYUS” su tutte, senza letteralmente ne capo ne coda con questo R&B dal sapore anni ’80 riempito di synth e voci del cazzo, imbruttita ancora di più dall’abuso di auto-tune), ballatine funk corrotte (“Pink Ocean” sarebbe discreta ma è troppo longa, 6 minuti davvero sono un’agonia) e frangenti pop (“Lazy Boy” arriva piacevole dopo tanto casino) che si sporcano tirando dentro un po’ di tutto.   Un pranzo che gonfia la pancia a dismisura  e che necessita quantità  industriale di Digestivo Antonetto.

Si sarà  sicuramente divertito il buon Julian, noi francamente sorridiamo solo a tratti. Bocciarlo completamente mi pare troppo, ma nemmeno complimenti eccessivi.