Tornano in Italia i Godspeed You! Black Emperor per un’unica data all’Estragon di Bologna, e noi non possiamo assolutamente mancare.

Dopo aver attraversato innumerevoli galassie e costellazioni in cerca della giusta connessione ultraterrena alle 21 ci materializziamo davanti al palco. Il locale è semivuoto, ci saranno al massimo una trentina di persone che aspettano davanti allo stage ricco di strumentazione. Colgo l’occasione per andare a sbirciare nell’area del merchandise e chi trovo dietro al banco? Ovviamente Sophie Trudeau la violinista storica della band che, seduta in una sedia forse poco comoda, aspetta l’arrivo di qualche acquirente. Forse qualcuno non la riconosce, forse molti restano un po’ imbarazzati dalla sua presenza li, sta di fatto che poco dopo come se niente fosse se ne va sparendo definitivamente nel nulla cosmico del backstage.
Nel frattempo un suono penetrante, continuo e ipnotico proviene dal palco dove Kevin Doria alias KGD ha piazzato i propri oscillatori sopra un tavolo che sembra quasi uno di quelli utilizzati alle feste di paese.

Poco importa, perchè in pochi secondi l’aria è completamente satura di un Drone minimalista che cattura l’attenzione di tutti. I pesanti sintetizzatori saldamente inchiodati al tavolo generano suoni statici, lenti e vibranti mentre Kevin, curvo su di essi, li maneggia come un vero maestro burattinaio. Il tutto dura circa 20 minuti, nel mentre il pubblico incuriosito si fa sotto il palco pronto per il gruppo principale. Messi a nanna i synth, si prepara il palco per i Godspeed You! Black Emperor mentre proprio qualche membro della stessa band appare sul palco per gli ultimi settaggi. Incredibile la quantità  di umiltà  nel palco in quel momento, quasi mi ricorda quella volta che vidi gli Shellac di Steve Albini “‘fasi,suonarsi e smontarsi’ il palco.
Detto fatto e Sophie Trudeau assieme a Thierry Amar salgono a scaldare gli archi. Un po’ alla volta il resto della band li raggiunge mentre “Hope Drone” incomincia a prendere forma. Il pubblico è attento, la sala è ormai piena di ragazzi giovani venuti da tutta Italia. Urla e fischi di approvazione per gli 8 canadesi presenti sul palco che sembrano quasi non accorgersi della presenza del pubblico. Si parte per un viaggio di quasi due ore, abbandonando definitivamente il pianeta terra alla volta di mondi sconosciuti, universi paralleli. La musica è un continuo sali e scendi che riesce a coinvolgere la mente fino a scendere verso le viscere del corpo. Si parte piano per finire inesorabilmente a sbattere la faccia addosso ad un muro di suono che taglia l’aria spettinando gli ascoltatori, prime ed uniche vittime di un controllo di dinamica magistrale. Non ci sono cambi di tonalità , il tutto è assolutamente statico, al limite del monotonia mentre i musicisti,con totale padronanza degli strumenti, sembrano essere gli unici ad orientarsi in quel vortice sonico.

Si guardano poco tra di loro e non considero minimamente il pubblico, addirittura Efrim Menuck, uno dei tre chitarristi, ad un certo punto abbandona le sei corde abbracciando un sax lucente e maestoso finendo a suonare con le spalle al pubblico. Sicuramente un tipo di presentazione voluta e studiata nei confronti degli spettatori che vengono in qualsiasi momento messi in secondo piano e non coinvolti, e in questo tipo di spettacoli è così che funziona, prendere o lasciare.
Il concerto prosegue e io mi sposto verso le retrovie per cambiare la prospettiva di ascolto visto che fino a quel momento ero piazzato in terza fila. C’è chi si siede, chi scuote la testa ipnotizzato dalle note di “Bosses Hang”, addirittura chi parla o “‘smanetta’ al telefono, forse annoiato. Proprio così e un po’ me lo aspettavo, perchè i GYBE non sono sicuramente un gruppo adatto a tutti, per comprendere la loro musica bisogna in primis azzerare qualsiasi concetto di musicalità , ripartire da zero e lasciarsi trascinare dal muro sonoro creato dalla band canadese. Non facile come concetto certo, soprattutto dal vivo, dove proprio non c’è scampo alle infinite suite deliranti che durano fino ai 20 minuti.

Siamo arrivati alla fine di questo spettacolo unico, che si conclude con l’epica “BBF3” dal loro primo EP “Slow Riot for New Zerø Kanada”, armonici che si intrecciano tra loro mentre violino e chitarre fanno da tappeto a quello che diventerà  il nostro ultimo viaggio sonoro. 12 minuti di calma mentre la famosa voce registrata di Blaise Bailey Finnegan sovrasta il tutto lasciando successivamente spazio all’ultima delirante e assordante mistura di suoni. Ipnosi ai massimi livelli e una manciata di foto scattate, forse poche effettivamente, ma in queste situazioni la mia mente è proiettata all’ascolto più totale verso un’alienazione estrema. Un’esperienza indescrivibile, da provare almeno una volta nella vita. Il concerto è finito, andate in pace.