Ormai è ufficiale: Janelle Monáe è, insieme a Beyoncè e a Björk, l’unica musicista a essere ancora in grado di trasformare l’uscita di un nuovo album in un evento di eccezionali proporzioni. Era capitato con “The ArchAndroid” (2010) è successo con “The Electric Lady” tre anni dopo e neppure “Dirty Computer” fa eccezione. Il ritorno discografico di quest’artista a tutto tondo (che è anche attrice di livello come ha dimostrato in “Moonlight” e “Il Diritto Di Contare”) è stato analizzato in ogni sua parte, i video (quello di “Pynk” diretto da Emma Westernberg in particolare) spiegati fin nei minimi particolari, dai vestiti (i vagina pants sono quasi di culto ormai) alle coreografie.

Giusto per ribadire che Janelle Monáe ama fare le cose in grande, per pubblicizzare “Dirty Computer” è stato lanciato un sito internet che approfondisce il significato di ogni brano (http://jmonae.com/iamadirtycomputer/) e realizzato un lungometraggio di un’ora circa (“Dirty Computer: An Emotion Picture”) che, con toni tra “Black Mirror” e “Westworld”, racconta la storia di Jane 57821 (interpretata dalla stessa Monáe) in fuga da un governo dispotico e autoritario in un mondo che ricorda da vicino quello distopico di “The ArchAndroid”. C’è ancora posto per la musica nell’universo multimediale creato da Janelle Monáe? La risposta è si e non solo per merito degli ospiti che magicamente compaiono tra le note di “Dirty Computer” (sua maestà  Brian Wilson, l’immancabile Pharrell Williams, Zoà« Kravitz e Grimes) o sono presenti in spirito (Prince, che con Janelle Monáe ha collaborato in passato e a cui il disco è idealmente dedicato).

Il mix di R&B, neo soul, hip hop e funk impegnato creato da Miss Monáe ha il pregio di restare sempre attuale, fin dalle prime note di “Dirty Computer” arricchite dalle armonie psichedeliche del già  citato Brian Wilson per poi continuare con “Crazy, Classic, Life” che rilegge la Dichiarazione d’Indipendenza americana in chiave più personale che politica. Cita Gloria Steinem, Barack Obama, Quincy Jones senza perdere la leggerezza la Janelle Monáe del 2018 e in “Screwed” (con le sue chitarre tra Prince e gli Chic) “Pynk”, “I Like That” e “Django Jane” rivendica battendo i pugni sul tavolo la totale libertà  sessuale e sentimentale. Ancora più esplicita è “I Got the Juice”, note di vero girl power con un allusivo e divertito Pharrell Williams. L’omaggio a Prince raggiunge livelli pregevoli in “Make Me Feel” in cui Janelle Monáe sembra veramente la reincarnazione al femminile del folletto di Minneapolis.

Il ritmo si abbassa alla fine di “Dirty Computer” con i sei languidi minuti di “Don’t Judge Me”, l’intensità  di “So Afraid” e una “Americans” incisiva e ironica ma anche un filo retorica. Uno dei pochi difetti di un disco che, nonostante qualche passaggio a vuoto (“Take a Byte”) e un paio di riempitivi (“Jane’s Dream ” e “Stevie’s Dream” nonostante la voce di Stevie Wonder) riesce a descrivere bene l’esperienza di una donna afroamericana nell’America di oggi. La Janelle Monáe che si nascondeva dietro l’alter ego di Cindi Mayweather, “The cybergirl without a face“, l’electric lady sofisticata di qualche anno fa è diventata più umana (e anche più pop) ma resta sempre una forza della natura con cui fare i conti al di là  dell’oceano.