Quando i Verve diedero alle stampe il loro album di debutto, esattamente 30 anni fa (21 giugno 1993), qualcosa di eccitante e sconvolgente si stava definendo in Uk, con la presenza massiccia di gruppi e artisti che, pur partendo da territori e storie musicali differenti, volevano ribadire la loro “distanza” da ciò che allora andava in voga e che dominava le classifiche di tutto il globo, vale a dire il fenomeno del grunge.

Era uscito l’attesissimo debutto dei Suede della coppia Anderson/Butler, già  famosi per aver ottenuto copertine senza aver inciso nulla, e poco prima, a maggio i Blur di Damon Albarn, pubblicando “Modern Life is Rubbish” avevano dato una decisa sterzata al loro sound baggy  degli inizi per recuperare quello spirito pop ereditato dai Beatles che avrebbe fatto di lì a poco le fortune del filone britpop.

Lo scenario musicale in cui si muovevano i Verve di Richard Ashcroft, Nick McCabe, Simon Jones e Pete Salisbury era più o meno questo in Inghilterra (ok, avevano già  fatto un tiepido capolino anche i Take That, ma questa è un’altra storia) e onestamente sembravano dei pesci fuor d’acqua, sin dai primissimi lavori pubblicati con la “Hut Records”, visto che i brani (poi raccolti nel “Verve Ep” pubblicato nel ’92 in USA), vertevano tutti su una forma ibrida di rock: psichedelico, onirico e visionario, dilatato, sfuggente, con qualche accenno shoegazer.

In particolare l’Ep “Gravity Grave”, prima del debutto su lunga distanza, aveva destato molto interesse attorno alla band, che già  si stava appropriando dell’etichetta “di culto”.

Inutile dire che anche ciò che girava attorno al gruppo non lasciava indifferenti, visto che oltre ad ispirarsi a livello musicale a band fondamentali del nascente rock psichedelico quali i Pink Floyd “barrettiani” o i Beatles post 1966, loro lo facevano anche “rispettando” certe abitudini, quali l’abuso di sostanze stupefacenti.

D’altronde, ascoltando proprio il brano “Gravity Grave”, caratterizzata dalla voce ondivaga di Ashcroft e dalle distorsioni elettriche di McCabe, vero fautore del primo sound dei Verve, pare inevitabile sentire non solo chiari echi psichedelici ma anche le conseguenze di un uso smodato di droghe allucinogene, quelle stesse che stavano creando scompigli all’interno del gruppo, minando rapporti personali e metodi di lavoro.

All’uscita di “A Storm in Heaven” era tanta la curiosità  di capire se le buone premesse degli Ep precedenti fossero solo frutto di intuizioni estemporanee o al contrario qualcosa di innato nel talento dei 4 di Wigan.

Bastarono le prime note “spaziali” e il cantato lieve del brano d’apertura “Star Sail” a dirci che sì, qui di talento compositivo ce n’era eccome. La canzone è in grado, cullando l’ascoltatore, di condurlo in un altro mondo, rassicurante e quieto.

Le sonorità  si mantengono fluidi, distese e aperte anche nella successiva “Slide Away”, negli anni tra le più apprezzate dell’intero loro catalogo, in quanto in grado di coniugare egregiamente le due anime musicali principali della band: quella più melodica di Richard Ashcroft e quella sperimentale di Nick McCabe, alle prese con ardite trame soniche.

Parte sperimentale che invece la fa da padrona maggiormente nella “quasi” strumentale “Already There”, che si caratterizza per i cambi di registro sonoro frequenti, con la voce di Richard che sembra affiorare in sottofondo, volutamente semi-nascosta. Stesso espediente utilizzato in “Beautiful Mind”, dove la voce del leader viene quasi avvolta in una spirale dal sound spaziale e circolare: si tratta a detta di chi scrive di uno dei picchi del disco, dove veramente si riesce a “viaggiare” fluttuando sulle note slide di McCabe.

Il rock riappare improvviso sin dai primi secondi di “The Sun The Sea”, per poi giocare a nascondino lungo il pezzo e tornando imperioso in veste quasi noise e free jazz per un finale ad alto tasso di intensità .

Anche “Blue” si discosta dal resto della scaletta per la sfrontatezza rock, ovviamente con la sua dose di psichedelia ben presente, mentre a far risaltare “Virtual World” è il particolare arrangiamento che comprende flauti e corni. E’ l’episodio più sognante e affascinante del disco.

In conclusione si piazza un’altra canzone davvero particolare, all’interno di quello che può sembrare al primo ascolto un lavoro sin troppo omogeneo: “See You in the Next One (Have a Good Time)” colpisce al cuore mostrando un Richard Ashcroft molto a suo agio nei panni del cantore romantico. Il suo cantato qui è caldo e spontaneo, e questo suo stile, molto efficace nelle ballate future che saranno sempre più in chiave acustica, diverrà  preponderante a scapito della vena sperimentale dell’amico rivale Nick McCabe,  il quale in questo brano suona sia pianoforte che fisarmonica, a dimostrazione di un eclettismo che verrà  sciaguratamente messo in disparte nei dischi successivi).

“A Storm in Heaven”, così fuori da ogni moda musicale all’epoca della sua uscita, forse proprio per questo ci appare ancora godibile, perchè sembra galleggiare in una bolla di sapone, sospeso nel tempo e nello spazio.

The Verve ““ “A Storm in Heaven”

Data di pubblicazione:  21 Giugno 1993
Tracce:  10
Lunghezza:  47:04
Etichetta:  Hut/Virgin Records
Produttori:  John Leckie

Tracklist:
1. Star Sail
2. Slide Away
3. Already There
4. Beautiful Mind
5. The Sun, The Sea
6. Virtual World
7. Make It ‘Til Monday
8. Blue
9. Butterfly
10. See You in the Next One (Have a Good Time)