Da ragazzino Stevie Wonder era già  a tutti gli effetti un veterano dell’emergente scena black statunitense. Una gallina dalle uova d’oro per la Motown, la storica etichetta soul e R&B che nel secolo scorso ci ha regalato alcune tra le pagine più belle della musica leggera. Il geniale polistrumentista nato a Saginaw, Michigan nel 1950 salì a bordo di questo glorioso carrozzone quando praticamente era ancora in età  da scuola media, arrivando all’esordio sulla lunga distanza nel 1962 con quel “The Jazz Soul Of Little Stevie” degno di essere ricordato soprattutto per la presenza di “Fingertips”, la prima in una sterminata sequela di hit.

Sotto il rigido controllo di dirigenti discografici e produttori ben felici di battere il ferro finchè era caldo, il bambino prodigio iniziò a crescere in maniera vertiginosa e a mostrare una sempre più evidente insofferenza nei confronti di regole troppo stringenti e profitti decisamente bassi. Nel maggio 1971 il desiderio di emanciparsi e conquistarsi quell’indipendenza artistica guadagnata sul campo a suon di vendite e record lo portò infine alla rottura con la Motown, con la quale preferì non rinnovare un contratto tutto sommato poco conveniente. Un gesto clamoroso che in qualche modo si rivelò un evento chiave non solo nella carriera di Stevie Wonder, ma anche nella storia della leggendaria label con sede a Detroit.

L’industria musicale era sull’orlo di una rivoluzione epocale: ai grandi artisti il ruolo di semplici mestieranti sforna-singoli scalaclassifiche ormai andava stretto. Concedere maggiori libertà  creative a chi fino ad allora era stato considerato alla stregua di un qualsiasi dipendente di azienda poteva avere i suoi vantaggi: Berry Gordy, il fondatore della Motown, imparò la lezione quando Marvin Gaye, sempre nel maggio 1971, lo aiutò a diventare ancora più ricco con quel capolavoro intitolato “What’s Going On” che, ancora in fase di produzione, si rivelò motivo di non pochi contrasti tra il soulman di Washington e i suoi datori di lavoro.

La battaglia era stata vinta e la Motown si ripresentò da Stevie Wonder implorando perdono in ginocchio. Per convincerlo a tornare alla base madre fu sufficiente fargli firmare un contratto da 120 pagine (!) con il quale la casa discografica si impegnava finalmente ad assicurargli una meritatissima indipendenza artistica. E lui non se lo fece ripetere due volte: nel marzo 1972, con l’arrivo nei negozi di dischi di “Music Of My Mind”, partì ufficialmente un’irripetibile era d’oro nella storia di questo piccolo grande genio, al quale bastarono una manciata di anni per cambiare per sempre i connotati di quel meraviglioso calderone di generi e stili che, in maniera forse un tantino generica, chiamiamo black music.

“Innervisions” è senza ombra di dubbio una delle migliori testimonianze dell’enorme talento di Stevie Wonder, frutto di un periodo tanto ispirato quanto eccezionale. Arrivare a produrre il proprio capolavoro a soli 23 anni al giorno d’oggi può sembrare un’impresa impossibile, ma con ben quindici album già  all’attivo nel 1973 Wonder poteva essere considerato tutto fuorchè un musicista inesperto e acerbo. A quasi mezzo secolo dalla sua pubblicazione questo lavoro continua a impressionare per la sua colossale varietà  e la presenza, in forme più o meno definite, dei semi di ciò che il soul, l’R&B e il funk sarebbero arrivati a diventare grazie a discepoli della caratura di Prince o Michael Jackson, tanto per citare due tra i più popolari seguaci del verbo wonderiano.

Le canzoni di “Innervisions” sono piccoli microcosmi di musica e parole che cominciano a schiudersi non appena l’ascoltatore pigia il tasto play. è tutto un alternarsi tra cartoline di un mondo reale – quello duro e spietato dell’America post-Watergate, in cui a un giovane afroamericano in cerca di fortuna bastava mettere piede in una grande città  per ritrovarsi in mezzo ai guai (“Living For The City”) – e uno immaginario, nato dalle speranze di un ragazzo del Michigan la cui sana ingenuità  lo portava a sognare una dimensione in cui “l’odio è solo un incubo e l’amore trionfa sempre” (“Visions”).

Nei 44 minuti di “Innervisions” la melassa degli anni ottanta (quella di “I Just Called To Say I Love You”, tanto per intenderci) è ancora un lontano miraggio, sepolta sotto cumuli di sporcizia che affollano le strade di spietate metropoli razziste e ammazza-ambizioni (la già  citata “Living For The City”), bugie di ciarlatani mascherati da difensori della fede (“Jesus Children Of America”) e politici avidi e corrotti, proprio come quel Richard Nixon che sembra nascondersi dietro il protagonista della pacata “He’s Misstra Know-It-All”. Nonostante questa apparente crudezza, le meravigliose melodie pennellate da pianoforti, armoniche e praticamente ogni modello di sintetizzatore all’epoca reperibile sul mercato conferiscono all’opera una leggerezza talmente raffinata da rappresentare una sorta di unicum nella storia del pop.

Ascoltate “Too High”: la condanna alle droghe è ferma e decisa, ma il giocoso jazz rock dalle tinte doo-wop che fa da sottofondo alla voce di Wonder fa pensare a qualsiasi cosa tranne che a una tirata moralista. Discorso più o meno simile per la celeberrima “Higher Ground”, una delle migliori prove in campo funk mai realizzate dal nostro: l’invito a continuare a credere, amare e lottare per raggiungere un “punto più alto” è sì una chiamata alle armi, ma sprizzante gioia, divertimento e soprattutto irresistibile groove. Perchè la musica impegnata può avere svariate forme e colori; in quell’ormai remoto agosto del 1973 Stevie Wonder ce ne diede la sua personalissima versione, regalandoci un capolavoro immortale.

Stevie Wonder ““ “Innervisions”
Data di pubblicazione: 3 agosto 1973
Tracce:  9
Lunghezza: 44:12
Etichetta:  Tamla Motown
Produttore: Stevie Wonder

1. Too High
2. Visions
3. Living For The City
4. Golden Lady
5. Higher Ground
6. Jesus Children Of America
7. All In Love Is Fair
8. Don’t You Worry ‘Bout A Thing
9. He’s Misstra Know-It-All