Basta leggere il nome sulla copertina per inginocchiarsi e chiedere umilmente perdono per i propri peccati !

Rialzati ? Benissimo….adesso il disco però  va anche tirato fuori dalla sua custodia, posizionato sulla piastra e abbassata quella magica puntina.

Paul McCartney ritorna, a distanza di 5 anni dall’ultimo acclamato “New”, con il suo diciasettesimo album solistico in studio e questa volta si fa produrre da Greg Kurstin (già  al lavoro con Beck, Foo Fighters e Liam Gallagher tra gli ultimi nomi di una lunga lista) ad eccezione di un unico brano registrato insieme e Ryan Tedder, giovane produttore discografico nonchè voce e frontman degli OneRepublic.

Una doverosa premessa. Ho  trascorso le mie vacanze e gran parte dell’estate a riascoltare ed approfondire tutta (a dire il vero quasi tutta, non avendo a disposizione un anno sabbatico!) la produzione post Beatles (quella dei Fab Four è invece impressa a fuoco nel mio cuore e nella mia anima!), sapendo quale onore mi sarebbe toccato nel giudicare questo nuovo lavoro.

Proiettiamoci per un instante nel futuro e pensiamo al giorno in cui malauguratamente il Nostro salirà  in cielo e siederà  alla destra del Padre (ma probabilmente questo non accadrà  mai!) provando a classificare grossolanamente in tre fasce la sua immensa eredità  (lasciamo perdere i lavori dal “’63 al “’70 perchè quelli sono fuori gara).
Ora, dopo numerosi ascolti, ritengo che “Egypt Station” si vada direttamente a posizionare in seconda fascia. Quella che non comprende nè lavori imbarazzanti come “McCartney II”, nè capolavori clamorosi come “Flaming Pie”, ma che come un “Memory Almost Full” del 2007 raccoglie brani piacevolmente ascoltabili, suonati con una classe ineccepibile e che nel complesso vanno a comporre opere che scaldano ma che non bruciano.

Il Macca ha voluto intendere il nuovo album, raffigurante in copertina un suo dipinto del 1988 (a proposito, consiglio vivamente di comprare la versione in vinile che offre un sontuoso packaging con la completa raffigurazione dello stesso), come un viaggio su binari che ad ogni stazione rivela fotografie di panorami differenti.
Si tratta perciò di un album eterogeneo che, se da una parte si fa apprezzare appunto per la sua volontà  di spaziare e di sperimentare (qualità  che non gli è mai mancata) pur mantenendo una confort zone classic, dall’altra espone qualcuna di queste polaroid non completamente a fuoco.

Troviamo perciò ottimi paesaggi come quella “I Don’t Know”, scelta come primo singolo insieme a “Come On To Me”, il cui pianoforte profuma di eternità  quasi al pari di “Let It Be” e offre un testo malinconico in grado di rivelare un artista del suo calibro che, all’età  di 76 anni, continua a chiedersi come un comune mortale se le scelte prese siano poi quelle giuste (My brother told me/Life’s not a pain//That was right when it started to rain/Where am I going wrong?/I don’t know). La stessa “Come On To Me” propone un ottimo brano rock dal sapore blueseggiante che inizia con un riff rubato a piene mani dalle pietre rotolanti, si eleva con un Do, do, do, do-do, do in piena beatlesmania e termina in grande stile con uno stop&go al minuto 3.20 che ripropone “We Will Rock You” dei Queen seguita da un giro magistrale di basso del mitico Hofner ed una efficace sezione di fiati a chiudere.

Ottime prove anche “Happy With You”, raffinata ballad chitarra e voce che pare rievocare le atmosfere di “Blackbird”; “Who Cares”, dall’incedere ammiccante a metà  tra “Get Back” e “Get It On” di T.Rex e una “Hand in Hand” toccante e intensa come quella “Here Today” che Paul dedicò all’amico ed ex compagno perduto nel 1980 per sempre (questa volta il destinatario fortunatamente della dedica è la nuova compagna Nancy), che vede sostituire il violino di allora con un delizioso flauto venezuelano e che mantiene lo stesso pathos.

A tenere alto il livello di scrittura compositiva abbiamo poi infine le 2 tracce che concludono l’album, intervallate dalla seconda traccia ambient “Station II” e che propongono 2 suite di circa 7 minuti che, se ovviamente non raggiungono le vette inarrivabili di “A Day In The Life, fanno la loro buona figura accanto ad altre canzoni/opera del nostro quali “Uncle Albert/Admiral Halsey”, “Hold Me Tight/Lazy Dynamite/Hands of Love/Power Cut” e “Band on the Run”, specialmente grazie a quell’assolo di chitarra finale di C-link di matrice pinkfloydiana che potrebbe durare all’infinito.

Tra le immagini invece fuori fuoco di cui sopra troviamo “Confidante”, “People Want Peace” (troppo pretenziosa nel volersi eleggere a nuovo inno di caratura Lennoniana), “Dominoes” e “Do It Now” che sinceramente si lasciano anche ascoltare volentieri ma con il rischio di lasciarsi anche dimenticare con lo scorrere del tempo.

Discorso a parte invece per i 2 brani alternativi al mood dell’intero lavoro, ovvero “Fuh You”, terzo singolo e unico brano prodotto da Tedder volutamente pop e pronto a scalare le classifiche dell’easy listening richiamando quell’immediatezza famigliare ad artisti come Robbie Williams o ai Coldplay più commerciali e “Back in Brazil”, che a differenza di quella “Back in U.S.S.R.” qui predilige farsi contaminare da sonorità  bossanova con un risultato interessante.

Mai come in questo caso dunque il voto ad un album risulta per me del tutto superfluo. Avrei potuto scegliere un 8 se paragonato alla media della produzione pop/rock contemporanea o un 6, se il paragone è la discografia di Sir Paul.

Ciò che invece non è per nulla superfluo è riconoscere per l’ennesima volta che quest’uomo, che nel lontano 1963 iniziò insieme ad altri tre ragazzi di Liverpool a rendere migliore il mondo con la musica, continua anche oggi, anno 2018, a farlo divinamente. Amen!

Credit Foto: Raph_PH [CC BY 2.0], via Wikimedia Commons