Ora che abbiamo assimilato per qualche mese la febbrile pentalogia di dischi prodotti da Kanye West tra maggio e luglio, possiamo fare un piccolo bilancio. Bilancio che, a parte il mezzo passaggio a vuoto del ritorno di Nas con “Nasir”, non può che ritenersi più che positivo: tra il suo “ye”, “KIDS SEE GHOSTS” in combutta con Kid Cudi, la seconda prova lunga di Teyana Taylor con “K.T.S.E.” e “DAYTONA” di Pusha T, Mr. West ha tirato fuori qualcosa come 36 beat, gran parte dei quali di livello davvero eccelso.
A voler scegliere il progetto migliore dal mazzo, se la giocano il tandem con “‘Cudder’ e questo “DAYTONA”, che in realtà  forse la spunterebbe al fotofinish. Già  perchè se non è “rap album of the year”, come sentenziato dallo stesso King Push alla fine dell’ultima esibizione al Jimmy Fallon Show, poco ci manca (al momento è seriamente in lizza insieme a “K.O.D.” di J. Cole e “CARE FOR ME” di Saba).

Col cronometro che segna 21 minuti e qualcosa al termine della settima e ultima traccia “Infrared”, il successore del già  ottimo “Darkest Before Dawn” è una bomba farcita di beat alla “old Kanye” (quello più caldo e “soul-edelico” dei primi tre dischi, tanto per intenderci), flow come sempre una spanna sopra molti e rime proverbialmente Push-iane a base di street life, narcotraffico e lusso. La copertina dice già  molto: acquistata per la modica cifra di 85mila dollari, la foto ritrae il bagno della casa di Whitney Houston subito dopo il ritrovamento del corpo della cantante morta di overdose. Il titolo invece è da riferirsi al modello di Rolex preferito da Push. Ma come li ha fatti tutti “‘sti soldi questo qui? Se è vero ciò che rappa, probabilmente anche attraverso un passato vissuto in strada, a spacciare così tanto da fargli assicurare che “the only rapper sold more dope than me was Eazy E” (da “Infrared”, in cui tra l’altro accusa Drake di non scrivere le proprie rime – è tutto parte di una cosiddetta beef tra i due che culminerà  nella feroce “The Story of Adidon” con cui Push asfalta “‘Drizzy’. Ma questa è un’altra storia). In “Hard Piano”, poi, Push e Rick Ross ci spiegano come Santo Domingo is the place to be quando si tratta di rifornirsi di roba, mentre “The Games We Play” suggerisce un metodo infallibile per liberarsi dalle tossine legate al consumo di crack: una bella maschera facciale a base di caviale. Intendiamoci, è il classico disco da “don’t try this at home”, ma la cui crudezza dei temi è veicolata in modo così – perdonate la banalità  – fico da aprirci uno squarcio su un mondo che non ci appartiene ma che visto dal di fuori inevitabilmente affascina. Ecco, “DAYTONA” è un po’ come un concentrato di scene da cartel di “Breaking Bad” o “Better Call Saul”. Roba brutta, ma rappresentata (lì visivamente, qui in musica) da Dio.

è anche vero che il desiderio di vendetta in “Santeria” è alimentato da una tragedia personale, l’uccisione dell’amico e road manager De’Von “‘Day Day’ Pickett, che Push non si vergogna di ammettere averlo lasciato in lacrime. Proprio “Santeria” rappresenta uno degli apici dell’album, merito anche di un intermezzo in spagnolo omaggio di quella 070 Shake che ha impreziosito pure “Ghost Town Pt. 1” in “ye” – una che ci mette un’intensità  a tratti aliena da far stranire e rabbrividire. Partecipa alla festa pure lo stesso Mr. West, con una strofa in “What Would Meek Do?”, in cui Push si toglie qualche sassolino contro chi sparge falsità  sul suo conto, chiedendosi cosa avrebbe fatto al suo posto il rapper Meek Mill, lui che nel 2017 era stato incarcerato ingiustamente (d’altronde la riforma del sistema giudiziario americano è causa che al Nostro sta molto a cuore).

E a chi lo accusa di non essere mai riuscito ad emanciparsi dall’ala protettrice di Kanye, Pusha T farebbe bene a non pensarci più di tanto. Se da un sodalizio artistico del genere nascono dischi come “DAYTONA”, se ne farà  e ce ne faremo tutti una ragione.

Push.