A tre anni da “Duty Free Rockets” tornano gli àœstmamò con “Il giardino che non vedi”: 11 canzoni positivamente semplici, con chitarre, basso, voce e batteria.

Forse resta inutile dilungarsi troppo sulla storia della band emiliana, sui rapporti con Giovanni Lindo Ferretti, sullo scioglimento e la conseguente lunga pausa durata più di dieci anni. Perchè, se con “Stard’àœst” per molti hanno toccato il punto più alto della loro musica – alternativa, carica di effetti, artistica, contaminata (“Nostre altre vite” un esempio) -, con “Duty Free Rockets” avviene un reset: non c’è Mara Redeghieri alla voce e il vuoto viene colmato da Luca Rossi e dall’idea più semplice e primitiva di approcciarsi alla musica. Mancano molti dei riferimenti alternativi che hanno contraddistinto la prima parte della loro carriera in favore di suoni più puliti, con chitarre elettriche poco distorte, acustiche ad accompagnare, arpeggi melodici e una voce in sordina, che si amalgama come fosse uno strumento, senza prendersi la scena. Si può parlare, quindi, di una band nuova.

Con “Duty Free Rockets” gli àœstmamò hanno optato per l’inglese (scelta criticata, ma poi perdonata da Giovanni Lindo Ferretti) consci di voler riprendere il discorso musica dalle basi, da quando suonavano da ragazzi in sala prove e dalle influenze musicali anglofone. L’album ha trasmesso una nuova energia alla band e il desiderio di approfondire questa nuova ispirazione. “Il giardino che non vedi” è il passo successivo, in avanti, a riscoprire il piacere di cantare in italiano e di sperimentare incroci tra strumenti, pur mantenendo il carattere del precedente (“Piccola nave” l’ipotetico fil rouge che lega i due album).

“Ali vive libero” è un ibrido tra rock e psichedelia che ricorda gli anni Settanta; “Luce mai riposa”, “Siamo di qua” e “Il buio sospeso” sono, positivamente, i classici brani scritti di getto, da sala prove, nati, magari, da un giro di accordi, al quale si aggiungono poi gli altri strumenti.

Non è semplice mettersi in gioco alla riscoperta del piacere di suonare anche solo per il gusto di farlo, per la gioia di ritrovarsi insieme, andare in tour e trasmettere la propria passione al pubblico. Pur se con una carriera importante alle spalle, un nome risonante nella scena alternativa italiana, che porta a pensare ad una strada precisa, i tre sono riusciti a ritrovare la passione ancestrale del fare musica, quell’ingenuità  adolescenziale alla quale poco importa di essere piaciona, tipica forse degli anni Novanta – sebbene questo non valga per tutti, sia chiaro, oggi più che mai -.

Interessanti le sonorità  folk, se vogliamo, di “Vieni avvicinati” (ma anche “Il buio sospeso”) à  la Kings of Convenience (per la scelta dei cori, “Misread” tra i tanti esempi), senza scomodare i Nick Drake del caso sulla scelta delle melodie acustiche.

L’album, tuttavia, si rivela in pieno solo dopo alcune tracce: soffermandosi alle prime canzoni ci si aspetta che tutto prosegua in quella direzione, invece spezza “La luna in tv”, con la chitarra in primissimo piano, melodica, semplice, ma d’effetto; sulla stessa scia ritorna “Una volta era meglio”.

Sicuramente l’atmosfera generale è introversa, fragile, a tratti, ma mai pesante, come spesso rischia di accadere andando a toccare quelle corde.

Indiscutibilmente di qualità , “Il giardino che non vedi” merita più di un ascolto, anche solo per capire cosa vuol dire ancora oggi innamorarsi della musica, saper comporre, rinnovarsi e saper suonare uno strumento. Tra software, strumenti digitali e l’immagine dell’analogico come “roba per cultori” ci siamo un po’ persi il suono della sala prove.