di Dario Ardias Thorre

Vedere ‘Blade Runner 2049’, senza nessuna remora per quello che rappresenta ‘Blade Runner’, significa immergersi in un tripudio di silenzi, pause lunghissime, introspezioni, sguardi ed analisi interiori. Villeneuve si carica sulle spalle il mito, lo rielabora, lo plasma, torna da Dick e ci offre, con cura infinita, un affresco “altro” del futuro umano. Un futuro dilaniato da cataclismi e da divisioni tra gli abitanti della disastrata terra. Non piove più tanto a Los Angeles, ma tutto resta tetro e inafferrabile, tutto è indecifrabile per Joe/Agente K, alla ricerca di se stesso, nella pura illusione di “essere umano” di avere un passato, una storia, un sostrato sul quale appoggiare la sua anima, il suo spirito.

In ‘Blade Runner’ i replicanti non volevano morire: voglio più vita padre, implorava Roy Batty; perchè il desiderio di ogni uomo, inconfessabile, è quello di non morire perchè la morte è dolore e fine di tutto. Pris si dichiarava, cartesianamente, un essere pensante: penso pertanto sono e quindi ho coscienza di me. Non voler morire per vivere, per urlare a tutti la propria umanità , la propria uguaglianza al pari dei veri esseri umani maestri nel creare la vita, artefici divini. In ‘Blade Runner 2049’, accade l’esatto opposto per chi umano non è ed è questa la felice intuizione. Joi, evoluzione estrema del sintetico, prova ciò che di più indescrivibile ed enigmatico possa esserci: amore. Amore per Joe nonostante ella sia un ologramma seppur perfettissimo, ma Joi desidera morire perchè solo la morte le garantirebbe uno status di essere umano, una dignità  che non ha perchè non esiste e questa disperazione la porta a fondersi con il replicante Mariette pur di far l’amore dal vivo con l’uomo che ama.

Il film è tutto qui, una costante domanda su chi siamo e quanta umanità  ancora ci è rimasta. Quanto può un essere sintetico sentirsi umano, provare amore ed essere cosciente di sè? Quanto possono gli esseri umani andare oltre la conoscenza, la scienza e la morale senza intaccare principi e dogmi religiosi? Più umano dell’umano, diceva Tyrrell e più umano dell’umano è Joi. Più umano dell’umano vuole essere Joe/K che si aggrappa a ricordi ed innesti emozionali. Cartesio in Villeneuve non basta più; pensarsi equivale a essere, ma essere significa anche esser-ci? qui- ora- prima- poi? La presenza di Deckard poi, non è mero fan service; Deckard è l’uomo disilluso, l’uomo che ha perso tutto e che, vittima di un mondo alienato nella tecnologia si rifugia in una Las Vegas deserta e abbagliante (e qui la fotografia di Roger Deakins è suprema) perchè nulla più può interessargli. Deckard non è più “il vecchio cacciatore con la sua magia” no, è arrivato alla fine del suo percorso o almeno lo crede fino a quando non ritroverà  Stelline, personaggio doloroso e splendido nella sua voglia di vivere (anche lei) elaborando i ricordi per i replicanti. Molti hanno giudicato futile la presenza di Jared Leto quale antagonista di scarsa rilevanza, beh mi secca sottolinearlo, ma Niander Wallace non è un vero antagonista quanto invece lo è Luv, vera nemesi di Deckard e Joe. Niander Wallace fa esattamente ciò che è deputato a fare: perseguire un suo disegno: creare un mondo di angeli perfetti e senza peccato e Joe/K non deve affatto sconfiggerlo perchè la sua vera missione è la ricerca di se stesso.

In barba alle critiche il film per quanto mi riguarda non è affatto lungo, si prende i suoi tempi, dilata, aspetta, ci fa apprezzare ogni colore, ogni sfumatura, ogni sobbalzo emotivo dei personaggi e ci riabitua ad una tempistica che nel cinema attuale, troppo veloce e informe, è ormai dimenticata. In conclusione, 2049 non è un sequel, sebbene continui la storia del primo film, ma è semplicemente un altro punto di vista sul mondo immaginato da Dick e narrato da Ridley Scott. Un punto di vista che ci lascia ancora più domande del primo e io, che continuo a farmele queste domande, attenderò vent’anni sicuro che l’opera maestosa di Villeneuve verrà  considerata capolavoro come già  lo è per me.