Gli Ought dal lontano Canada, sbarcano in Europa e toccano anche Milano per presentare il disco nuovo “Room inside the world” terzo loro lavoro, uscito per Merge a febbraio, dopo i primi due per Costellation.

Post punk senza fronzoli, arrivato, giusto, qualche anno in ritardo rispetto all’ondata revival partita a metà  anni zero e continuata, con inerzia, a macchia di leopardo, fino ad oggi. Una sorta di genere con hype a scadenza breve, mettiamola in questo modo; proprio per dire che probabilmente gli Ought avrebbero goduto di maggior visibilità  e conseguente riscontro all’interno di una scena. A dirla tutta, finora, forse, è mancata loro la voglia o l’attitudine di buttare sul piatto quella manciata di singoli pop che ha fatto fare fortuna agli assimilabili Editors, che di fatto riempiono i palazzetti, perchè poi avrebbero tutto per giocarsi anche quel campionato. Ma a noi piace la musica a prescindere dal genere e, che sia per pochi o tanti, c’importa ancora meno: quindi siamo in prima fila per chi lo merita e per chi propone qualità  (che è la parola più bella da abbinare a qualsiasi aspetto dell’arte in generale).

Spesso ci si dimentica quanto sia bello un disco bello.

Il concerto di stasera si basa soprattutto su quest’ultimo album, tutte di seguito: “Into the sea”, “Disgraced in America”, “These three things”, “Desire”, disco che in qualche modo ha visto anche una sorta di evoluzione del suono della band, più forma canzone. Anche nella dimensione live sanno convincere dando di fatto quella profondità  e immediatezza al lavoro fatto in studio. Un piccolo club (come il sempre delizioso Ohibò, che per altro quest’anno ha messo ulteriore fieno in cascina con una programmazione stellare, quasi giornaliera, tanto per buttar li un nome a caso: Built to spill a maggio, bravi tutti davvero) che li accoglie e li fa sentire a casa (di fatto un ritorno dopo il concerto di un paio d’anni fa), dando loro quell’affetto importante che si tramuta in divertimento reciproco e lo si percepisce.

Quadrati, precisi, spigolosi e melodici, mischiano il vecchio e il nuovo, con spazio, soprattutto sul finale, alle cose del recente passato come “The weather song” o la title track “Today more than any other day”. Tim Darcy catalizza l’attenzione in perfetto stile Ian Curtis, non solo per il tipo di voce, anche per una certa somiglianza. Elegante e raffinato in camicia, non un capello fuori posto, il frontman si prende quasi tutta la scena e come detto sopra non escudo in futuro di vederlo in situazioni con qualche centinaia di metri quadrati a disposizione.

Un’oretta di concerto volata e tutti a nanna.