Quanto sono lontani i tempi in cui Matt Bellamy presentava al mondo il suo intento di trasformare la propria chitarra in un sintetizzatore a corde destinato a segnare per sempre la storia del rock? La megalomania è stato sempre un tratto distintivo dei Muse, nelle loro odissee che negli anni hanno toccato lo stadium rock più dorato  per poi attraccare in lidi come quelli, ad esempio,   della dubstep: ed  il cambio di direzione e di stile è ormai la costante ferma la quale approcciarsi a questo ottavo album in studio della band inglese.

Che ci sia una forte impronta cinematica e futuristica da anni 80 lo si capisce subito dalla copertina a firma Kyle Lambert (“La Cosa”, “Jurassic Park, “Stranger Thing”) fosse solo per i colori laser  e i richiami ad alcune pellicole di fantascienza di quei periodi (da “Blade Runner” a “Ritorno al Futuro” via per “Gremlins”, ri-omaggiati  anche negli ultimi video come quello di “Pressure”) e i primi pezzi (da “Algorithm” a “Propaganda”) non fanno che avallare questo sentiment: la fa da padrone questo synth pop da realtà  virtuale che non brilla certo per originalità , con quell’eco di dejà  senti dal mondo pop (“Dig Down” ha più che qualcosa di “Freedom! ’90” di casa George Michael)  o dalla vecchia produzione sempre dietro l’angolo, dove pure la voce di Bellamy se ne sta buona buona in oasi più pacifiche e suadenti come immemore dei picchi che era riuscita a toccare ai suoi esordi, lasciandosi peraltro distorcere con gran facilità  (“Break It To Me”) o facendo da corollario a pezzi da cyber rock super patinato (“Blockades” e il prog incerto dell’assolo di chitarra, uno dei pochi). E niente, poca sostanza anche lato songrwiting, piuttosto banale, asfittico e prevedibile.

Quasi epifanica, e apparentemente fuori contesto, arriva anche la ballata country e rotonda, seppur dalle venature volutamente futuristiche,  di “Something Human” che pare come la coda riappacificatrice di “Madness” e che, per quanto probabilmente ottima per qualche passaggio pubblicitario di autovetture che girano per lande e colline, ben poco c’entra con il fil rouge finora riscontrato.

Va detto per  onestà  di cronaca che un marchio Muse, a denotare l’autenticità  almeno della messa in opera del lavoro, traspare comunque, seppure come già   evidenziato  non ci sia quella luce di originalità  che possa dar vero  spessore a questo capitolo; e per tornare al discorso iniziale, i synth le chitarre se le sono mangiate. E lo Showbiz tanto criticato agli esordi, ha fagocitato tutto il resto.

Quindi, chi ama il rock mugugnerà  (ancora): il fan dei Muse più ortodosso, forse, apprezzerà  (ancora, nonostante tutto).

Credit Foto: Jeffrey Forney