Siamo sicuramente di fronte ad un’icona del rock con tre lustri di onorato e sviscerato servizio: i Mudhoney tirano dritto, come al solito, dalla fine degli anni 80 e sono in Italia per presentare un ritorno importante che si chiama “Digital Garbage”, che li ha visti rinnovarsi nel suono pur mantenendo quell’imprinting da one, two, three, four con radici salde nel punk che li ha sempre caratterizzati.

Dopo lo scioglimento dei Green River e il dissolversi del primo collettivo nasceva, appunto, il progetto Mudhoney agli albori di quello che sarebbe stato un movimento significativo, il famigerato grunge che spopolò, worldwide, da li a poco; è vero anche che grunge voleva dire tutto e niente, ma incarnava bene l’attitudine di una generazione x senza ideali, i sempre presenti anni 90, ancora oggi ricordati con quell’alone di malinconia.

Se comunque non si fosse capito siamo di fronte ad una band schietta, sincera, con zero tendenze modaiole. Semplicemente con un modo di fare, arrangiare e scrivere le canzoni tutto loro da trent’anni a questa, parte licenziate dalla Reprise e soprattutto dalla stralunata quanto fondamentale Sub Pop (tutt’ora oggi la loro etichetta).

Fatta questa piccola premessa, in una Santeria sold out in prevendita (è un piccolo club, ma fa sempre piacere vedere una bella risposta per questa band, che ha scritto, a suo modo, una parte di storia del rock indipendente americano) snocciolano, senza pause, un best of della loro lunga carriera, ovviamente c’è la giusta dose promozionale legata al disco nuovo (sotto un certo di vista sorprendente), ma vanno parecchio indietro a pescare brani qua e la come “I Like It Small” o “You Got It” (addirittura dal primissimo album) o “Suck Your Dry” dal loro disco più famoso “Piece Of Cake” del 1992 fino ad arrivare a “Touch Me I’m Sick”.

Non sono certo una proposta facile, zero melodie posticce o canticchiabili, bensì liriche urlate, istintive, senza fronzoli. Pogo selvaggio sotto il palco, stage diving di alcuni fedelissimi con tanto di bacio a Mark Arm, una scaletta ricca di tantissimi episodi, lasciando spazio anche a quattro cover conclusive, una sorta di omaggio alla scena punk hardcore degli anni 80 con “Fix Me” dei seminali Black Flag di Henry Rollins come ultimo bis. Tralasciando il dogma del sottoscritto che dice sempre: “almeno una volta tutti”, direi concerto con i controcazzi, due ore di rock’n roll tutto d’un fiato, rasoiate nei denti e tutti a casa.

Credit Foto: Daigo Oliva from Sà£o Paulo, Brasil / CC BY-SA