Jaime Harding uomo e Jaime Harding artista. Due linee rette parallele, ma che purtroppo si sono intersecate spesso, con la prima che ha, inevitabilmente, influenzato e sconvolto la seconda.

Questo, dei “nuovi” Marion (della formazione classica è rimasto solo il cantante), poteva essere il piccolo tour della rivincita artistica, un calcio in faccia a tutto quello che è stato e la necessità  di dimostrare che sotto la cenere il fuoco è ancora vivo. Non è andata così. Purtroppo il Jamie Harding visto sul palco londinese è un pugile che ha preso tanti, troppi colpi e barcolla, si tiene in piedi certo, ha dei moti d’orgoglio e non vuole mollare, ma forse si accorge (meglio, dovrebbe accorgersi) che gettare la spugna non sarebbe così disonorevole.

La serata viene aperta (alle ore 19.30!) in modo sublime dai Desperate Journalist che con l’aggiunta di una nuova chitarrista guadagnano in impatto e potenza: il loro live mette i brividi nel perfetto equilibrio tra rabbia, esplosioni sonore e melodie. Spendere ancora parole su Jo Bevan sarebbe superfluo: incantatrice e con una personalità  incredibile. I pezzi nuovi dell’album atteso per l’anno prossimo già  esaltano.

Alle 20.45 è il momento dei Marion. Entra la formazione e subito ci si accorge che c’è una chitarra sola: la scelta al risparmio non pagherà  più di tanto nell’economia del sound complessivo. I Marion sono (stati?) una band con 2 chitarre e francamente una sola è troppo limitante. Non che i ragazzi non facciano un buon lavoro, sono onesti mestieranti, ci mettono grinta e passione e tutta la potenza che possono esprimere la mettono nei loro strumenti, ma il sound, sopratutto in qualche brano, non è pieno a dovere. Arriva anche Jaime, indossa una giacca che non toglierà  mai durante lo show.

Il primo brano è “Toys For Boys” e che qualcosa non andrà  per il verso giusto lo si intuisce subito, con il nostro che non attacca con il tempo esatto, ma salta letteralmente la prima frase per partire dalla seconda. Il cantato è affettato, spesso non particolarmente a tempo. Si capisce ben presto che è il fiato ad essere carente. La voce, ogni tanto, ricorda quella dei bei tempi, ma mancano le giuste tempistiche sul pezzo, manca quella voce che assaliva i brani e a tratti pare di sentire una specie di “Frank Sinatra che interpreta i Marion“, giusto per rendere l’idea. La scaletta è ovviamente deliziosa, con brani classici dai due album che scorrono, ma la resa vocale a tratti mette i brividi, tra ritornelli inarrivabili (“Let’s All Go Together” è impietosa), piccole frasi che vengono saltate e, appunto, la scelta di non “correre” dietro al ritmo dei brani ma piuttosto di andare a rilento, con un cantato che a tratti pare un parlato.

Non tutto è da buttare, sia chiaro. “The Collector” fa pure una bella figura. Ma si percepisce l’affanno e quando nemmeno il carisma (irrimediabilmente smarrito) ti aiuta, beh la strada è davvero in salita. La gente (150 persone circa, età  media piuttosto alta) applaude, ma batte le mani all’uomo, non all’artista. Batte la mani a un vero e proprio sopravvissuto, che in 20 anni ha toccato il fondo tra droga, carcere, malattie ma che, nonostante tutto, è ancora qui, orgogliosamente, con un microfono in mano, appesantito, rallentato, con uno sguardo perso, ma non domo. Merita l’applauso certo, forte e sincero. L’artista invece, stasera, non ha convinto, costretto, drammaticamente, a cedere il passo a tutte queste piaghe della vita, che hanno lasciato dei segni incancellabili e troppo influenti.

50 minuti passano velocissimi, per noi, chissà  per Jaime. “Sleep” chiude un set che conferma come dai Marion targati 2018 ci sia ben poco da aspettarsi.

Ps: applausi alle due fanciulle italiane, venute apposta da Roma e Trieste per lo show, conosciute sotto il palco. C’è qualcun’altro che non si vuole proprio staccare dagli anni 90! Eroiche.