Death, divorce, drugs, depression: le quattro delta fonte di ispirazione di Marcus Mumford e soci per questo quarto album in studio, con il produttore Paul  Epworth (Adele, Florence and the Machine, Coldplay) in attenta ed interessata supervisione: nome forte, ma col serio rischio-contagio- del Pop più mercificatore lì ad incombere.

Laddove i primi due album della band inglese avevano raccolto clamorosi ritorni in termine di vendite e – specie l’esordio del 2009 “Sigh no More”- di apprezzamento di pubblico e critica, già  l’ultimo “Wilder Mind”  e la sua virata (furbescamente?) synth ed elettrica avevano fatto storcere il naso un po’ a tutti, spersonalizzando in parte quello che dei Mumford era il tratto distintivo capace di conquistare consensi ed amori in lungo ed in largo per il globo.

E l’apertura alle nuove tendenze di sintetizzatori ed elettronica è subito evidente e rimarcata già  dall’apertura con “42”: contaminazioni (del recente) Vernon/Bon Iver come se questi fosse lì accanto a loro, ancora chitarre elettriche, per un pezzo dall’animo  pur sempre pastorale che ha del munifico e tutti i connotati per essere destinato a platee da stadio, con lo stesso  Marcus Mumford che si fa aiutare da autotune e simili per arricchire ed adornare la propria voce; conferme arrivano anche dalla preghiera in musica che è  la già  estratta “Guiding Light”,  la quale rientra sì nei canoni strutturali della prima produzione lato songwriting e carico emozionale, meno convincente invece nella ricerca di quel suono impeccabile, orchestrale e grandioso di cui forse non avrebbe nemmeno avuto bisogno.

E anche quando Winston Marshall torna a pizzicare sul fidato  banjo come in “Beloved” o il crescendo di archi e batteria dai connotati marziali tinge d’oro pezzi come “The Wild” e il suo iniziale incedere pacifico e naturale, non sembra comunque esserci qualcosa degno di particolare nota, di soddisfacente e nuova ispirazione, di suggestivo ed appassionante;  poco di tutto ciò  nemmeno andando avanti con le nuove sperimentali alchimie sonore di “Darkness Visibile” o con le melodie tipiche di casa Mumford e i territori amici  fatti di acustica, piano e cori  che fanno da contorno a “Wild Heart”  o alla luminosa title track “Delta” in chiusura.

Va detto, stile, gusto e tatto personali ed inconfondibili non mancano, i Mumford and Sons ci sanno fare e su questo c’è poco da discutere; semmai si può percepire, quella sì, una sensazione finale di aver provato qualcosa di, seppur con il vestito buono, piuttosto freddino e scialbo, al netto del ricettario classico fatto di genuino sentimento e lucida emotività . O forse è che preferivamo quelle ambientazioni calde, rustiche e toccanti grazie alle quali, e su questo ci possiamo scommettere, a prescindere da questo “Delta” i Mumford saranno ancora in grado  di riempire stadi e palazzetti in giro per il mondo.