Quando si arriva al sesto album è necessario rischiare e avventurarsi in generi non ancora esplorati o è meglio rimanere nell’ormai usurata comfort zone? è questo il dubbio che sorge nel caso di molti artisti longevi e prolifici. Toro y Moi, vero nome Chaz Bundick, non fa eccezione e con Outer Peace sceglie la prima opzione premendo l’acceleratore sul cambiamento con risultati misti.

Bundick, a dire il vero, non è nuovo a sperimentazioni e trasformazioni nel corso degli anni.
Nel 2010 i suoni artigianali e psichedelici del primo album “Causers Of This” lo hanno consacrato come uno dei maggiori esponenti del nuovo genere chillwave assieme all’amico Washed Out.
Quell’etichetta però non gli è mai stata di gradimento e ha quindi cercato di discostarsene nei dischi successivi, mantenendo le atmosfere che lo caratterizzavano, ma virando verso suoni disco anni 90 o synth-pop anni 80.
In “Outer Peace” sembra però essere indeciso tra il funk anni 70-80 e il pop-rnb contemporaneo.

Il disco sembra essere strutturato in tre atti: la prima parte inizia con “Fading”, la cui struttura ricorda quella di varie canzoni degli Hot Chip dove synth livellati compongono una melodia semplice e monotona. La traccia però non lascia il segno e non è un opener adeguato.
Segue “Ordinary Pleasure”, il singolone dell’album, quello che hai in testa la mattina appena sveglio senza sapere il perchè, un tormentone dai suoni disco funk su cui pattinare negli anni 70.
Conclude la terzina “Laws Of The Universe”, in cui continuano le stesse maestose sonorità , ma per cui vale lo stesso discorso della prima traccia.

Da qui, senza preavviso, la situazione si ribalta e l’opulenza lascia spazio al minimalismo dell’rnb dei giorni d’oggi. Con “Miss Me” sembra che per sbaglio sia partito un album di FKA twigs: pochi suoni puliti, beats netti e non invadenti e la sensuale voce di ABRA sono gli ingredienti di un pezzo riuscito, ma che non ha nessuna coesione con ciò che è successo in precedenza. La modestia stilistica continua in “New House”, che è però il primo e unico sussulto emotivo del
lavoro. Un loop semplice a cui si aggiunge la voce di Bundick in autotune che ripete di volere una casa nuova di quelle che non può permettersi. è la canzone più Toro y Moi del disco, l’unica le cui atmosfere avvolgono gli ascoltatori e li trasportano dovunque essi vogliano essere trasportati.

“Baby Drive It Down” chiude il secondo atto con lo stesso minimalismo, in modo asciutto, ma dimenticabile.
La parte finale alterna i due stili ascoltati in precedenza. Con “Freelance” e “Who I Am” si ritorna in discoteca a ballare l’hustle. La prima è l’altro singolo dell’album con un “ah-ah-ah-ah-ah-ok” martellante mentre la seconda risulta inconcludente.
Si chiude viaggiando nel futuro, è di nuovo il 2019 con “Monte Carlo”, dove Bundick guarda all’hip hop moderno in modo più raffinato, ma non crea nulla di originale.
Stesso discorso per “50-50”, produzione hip hop per una melodia pop con cantato in autotune.
Al di là  della confusione a livello di influenze sonore, ciò che salta all’orecchio e la quasi totale assenza di momenti emotivamente coinvolgenti.

Bundick col progetto Toro y Moi era sempre riuscito con enorme successo a creare delle atmosfere basate sul non detto, dove l’immaginazione dell’ascoltatore era fondamentale.
La produzione artigianale, eterea e psichedelica dei precedenti LP lascia qui spazio a suoni patinati, precisi, netti, senza sbavature. Il lavoro risulta quindi ballabile e tecnicamente ottimo, ma rischia di cadere nell’asettico.
Quindi, rispondendo alla domanda in apertura, Bundick si è preso un rischio calcolato, il disco si lascia ascoltare, ma Toro y Moi ci aveva abituati a lavori migliori.