Dai primi sorprendenti ascolti, la sensazione che già  a metà  gennaio ci troviamo di fronte ad uno degli album destinato a rientrare in tutte le top ten di fine anno sembrerebbe decisamente fondata.
Con il suo precedente album, datato 2014, “Are We There”, Sharon Van Etten si era definitivamente e aggiungiamo meritatamente guadagnata l’attenzione della stampa di settore, grazie ad una riuscita combinazione tra epica, eleganza e minimalismo.

A distanza quasi esatta di un quinquennio, la cantautrice di Clinton, New Jersey, torna ora con un nuovo lavoro pubblicato nuovamente dall’etichetta discografica Jagjaguwar e prodotto da John Congleton già  al lavoro per gli ultimi successi di Lana del Rey e St. Vincent .
Nel mezzo collaborazioni e attività  di ogni tipo, oltre ad una gravidanza, tra cui il corso di psicologia al college, la partecipazione alle serie tv “The OA” e “Twin Peaks 3” e la composizione della colonna sonora per il film “Strange Weather” di Katherine Dieckmann.
Il cambio di rotta voluto e cercato a causa di un momentaneo disinnamoramento della chitarra acustica e del piano classico, hanno fatto intraprendere alla cantautrice nuove direzioni sonore. Molte delle canzoni sono state scritte su un synth o su un organo Korg degli anni ’70 mentre si seguiva la batteria.
è molto più scuro e ci sono più battiti. Non è pilotato da acustica e le canzoni sono più veloci. Sarà  sicuramente un suono più grande e più scuro, e molto più sentimento elettronico. Queste le sue parole a proposito del nuovo sound.
Una scelta simile a quella che aveva abbracciato un’altra fuoriclasse della nuova scena cantautorale femminile statunitense come Cat Power, prima di registrare “Sun”, a dire il vero però con un risultato meno efficace di questo.

L’inizio di “I Told You Everthing” è fuorviante. I primi rassicuranti secondi con piano e voce alla Tori Amos vengono disturbati quasi subito da un suono crescente di droni che implode in un tonfo composto da basso e batteria e che sembra rovesciare in maniera definitiva la sua personale confort zone. Una chitarra hawaiana e un bird call sembrano poi alleggerire un brano dal testo cupo e struggente (Sitting at the bar, I told you everything. You said, “Holy shit. You almost died).
Il secondo brano “No One’s Easy to Love” propone un intro a metà  tra l’omaggio e il plagio di “Ava Adore” degli Smashing Pumpkins che si sviluppa poi in una sinuosa ballad space rock con tastiere che rimandano ai primi Spiritualized e ai Muse più psichedelici.
“Memorial Day” è invece un brano di ispirazione bristoliana, dove su un tessuto trip hop viene posato delicatamente un ritmo jazzato grazie ad un sax minimale mandato in loop per tutto il brano.
“Comeback Kid” è stato il primo singolo scelto per anticipare l’album ed evoca la potenza controllata di Florence + The Machine, anche se avrebbe meritato maggior dinamica, con un testo che sembra finalmente dare segnali positivi e incoraggianti di una ritrovata rinascita (I’m recovering e Don’t look back sentenzia orgogliosamente Sharon).
Troviamo poi un brano strepitoso come “Jupiter 4” (mio preferito in assoluto dell’intero lotto e forse della sua intera discografia), un’ode all’eterna ricerca di amore, perfetto proprio per il potente contrasto tra l’ottimismo delle liriche e un sound allo stesso tempo funereo e definitivo. Qui, i sintetizzatori più cupi che mai ricordano l’ultimo Nick Cave e l’interpretazione vocale catartica di Sharon ci regala una ballata viscerale che per pathos sarebbe stata perfetta all’interno della colonna sonora del cult movie “Drive”.

Il cigolio che si sente all’inizio e alla fine del brano sembra quello di un tergicristallo che ci conduce all’interno di un abitacolo di un’autovettura all’inizio di un viaggio notturno, verso cosa non è dato ancora saperlo, ma con la consapevolezza di essersi finalmente lasciati alle spalle qualcosa di angosciante. La luce in fondo al tunnel finalmente, che ovviamente non può non essere che l’amore (How’d it take a long, long time to be here? Turning the wheel on my street, my heart still skips a beat).
Con “Seventeen” (altro brano meraviglioso!) il rimando evidente è al sound epico degli Arcade Fire pre “Reflektor” e dello Springsteen anni 80, in cui una attuale Sharon sembra parlare con una se stessa diciasettene appena giunta nella grande mela (il video diretto da Maureen Towey è una splendida dichiarazione d’amore a New York) cercando di avvertirla e allo stesso tempo rincuorarla per quello che sarebbe diventata. I know that you’re gonna be! ci urla ad un certo punto con quella stessa enfasi drammatica che l’avvicina alla regina dell’alternative rock, ovvero PJ Harvey.
“Malibu” è invece una soave e raffinata ballad in stile Lana del Rey che potrebbe essere il seguito ideale di quella “Tarifa” che rappresentava come in questo caso non solo un luogo geografico ma un luogo dell’anima.

Abbiamo infine “You Shadow”, un brano new soul alla Joan As Police Woman, “Hands”, un brano con una struttura molto complessa le cui distorsioni ricordano qualcosa tra le cose migliori dei primi Garbage, e la conclusiva “Stay”.
Con quest’ultima la Van Etten sembra voler chiudere il cerchio e smorzare la tensione della parte centrale del disco e della sua vita passata tramite sonorità  dilatate di matrice Portishead. Si manifesta, quindi, nelle liriche la maturità  di una donna sopravvissuta che decide di rimanere/to stay forse per la prima volta grazie all’amore indissolubile tra madre e figlio (You won’t let me go astray, You will let me find my way).

Le dieci tracce che ci vengono offerte, a differenza di tutti gli altri suoi album precedenti dove regnava un principio identitario, vanno a comporre un collage eterogeneo e che se, a dover di cronaca, non offrono nulla di innovativo (ma la verità  è che oggi l’unica vera innovazione in campo musicale è quella della contaminazione come in questo caso), ci regalano un’artista viva e al suo massimo splendore.

Photo Credit: Ryan Pfluger