Ogni volta che mi capita di leggere qualche sorta di retrospettiva sul rock prodotto a cavallo tra la fine degli anni novanta e l’inizio dei duemila, puntualmente mi imbatto nella tirata al vetriolo contro uno dei generi più amati e odiati dell’epoca: il nu metal. Un genere che sarà  pure stato pacchiano quanto vi pare ““ sicuramente colpevole di averci propinato alcune delle più brutte cover di successi synth pop/new wave mai realizzate nella storia ““ ma che non ha mai preteso di essere qualcosa di più che un semplice fenomeno passeggero.

Se, come il sottoscritto, agli albori del millennio frequentavate il liceo, è probabile che lo ricordiate anche con un pizzico di affetto e nostalgia. Riascoltandole oggi, buona parte delle canzoni scritte da meteore del calibro di P.O.D., Coal Chamber, Ill Nià±o e Crazy Town vi sembreranno delle vere e proprie oscenità ; nonostante ciò, quanti di voi nascondono nei loro scaffali una copia di “The Gift Of Game” o di “Chamber Music”? Senza questa “meravigliosa” musica, molti di noi non si sarebbero mai avvicinati al fantastico mondo del rock; impossibile non essere un minimo riconoscenti.

Per quanto mi riguarda, uno dei miei grazie più grandi non può che andare ai Papa Roach. Da ragazzino consumai i loro “Infest” e “Lovehatetragedy”. Quel crossover muscolare e ad alto tasso di testosterone fatto di chitarroni ignorantissimi, rap incazzoso e ritornelli da cantare in coro fu per me una vera e propria rivelazione. Con la maturità  il mio interesse nei confronti del quartetto californiano ha cominciato a calare in maniera vertiginosa, ma non è mai sparito del tutto.

Ora li ritrovo con questo “Who Do You Trust?”, decimo sigillo di una carriera iniziata più di venticinque anni fa. Riprendendo il modello abbastanza fortunato del precedente “Crooked Teeth”, anche per quest’occasione la band ha deciso di affidarsi alla saggezza di tre produttori/songwriters giovani ma dall’ottimo fiuto per il successo. Nel curriculum di Nicholas Furlong, Jason Evigan e Colin Brittain vi sono collaborazioni con Maroon 5, David Guetta, Steve Aoki e Avicii: abbastanza per far preoccupare qualsiasi (nu) metallaro della prima ora.

In realtà  il trio non snatura troppo il sound dei Papa Roach ““ che, a essere sinceri, si è già  snaturato parecchio nelle uscite più recenti ““ ma dà  una mano a “riverniciare la carrozzeria”, puntando ad attrarre un pubblico cresciuto a trap e Imagine Dragons. Un approccio più pop ed elettronico che però lascia l’amaro in bocca: brani come “The Ending”, “Elevate” e “Problems”, pur avendo un fortissimo appeal commerciale, sono semplicemente bruttarelli

Le cose vanno un po’ meglio solo quando le chitarre tornano a occupare il centro del palco. Che si tratti di coraggiosi esperimenti con sonorità  moderne (“Not The Only One”) o espliciti ammiccamenti al passato (“Renegade Music”, “Who Do You Trust?”), gli episodi più interessanti di questo album abbastanza mediocre sono quelli in cui i Papa Roach fanno i Papa Roach. Non c’è resurrezione che tenga.