di Enrico Sciarrone

(foto di Cristiano Santini)

Alla fine prevaleva un generale senso di smarrimento , quasi di disorientamento. è quello che si coglieva tra il pubblico della Kioene Arena di Padove al termine della performance che ha chiuso il breve tour italiano dei Massive Attack. In quei secondi trascorsi quasi in silenzio dal termine di una rabbiosa versione di “Group Four” , l’ultimo monito sparato sullo schermo al buio che invita a lasciarsi alle spalle i fantasmi e pensare di costruire il futuro e il riaccendersi delle luci, segno inequivocabile che tutto era finito. Nessuna invocazione alla band di ritorno sul palco, nessun reclamare di bis, si è defluito ordinatamente, andava bene così. Come se quell’ora e quaranta fosse bastata a rendere il pubblico conscio e consapevole di quanto i Massive volessero dirci.

Non si è trattato infatti solo della classica celebrazione ventennale dell’uscita di un capolavoro. L’album “Mezzanine” ha costituito senza dubbio l’apice creativo del gruppo, album che ha elevato alla perfezione i canoni estetici del trip hop, con un sound che al tempo definimmo futurista per la potenza visionaria e l’eterogeneità  delle atmosfere che lo hanno ammantato ma che ha anche segnato la dipartita definitiva di Mushroom uno dei tre storici fondatori del gruppo, totalmente in disaccordo già  in sala d’incisione con i nuovi orientamenti del gruppo. Non è azzardato sostenere che da lì in poi il gruppo ne abbia risentito. Da qui la necessità  per Massive Attack di celebrare sì questo ventennale ma rimettendosi in discussione, quasi una sorta di update sullo stato di salute della band capitanata da superstiti 3 D e Daddy G, chiamata a rielaborare , destrutturare, reinventare quel sound, ancora straordinariamente attuale, ripercorrendo una sorta di viaggio tra passato e presente per comprendere le evoluzioni interne , i cambiamenti e gli accadimenti non solo musicali ma anche sociali e politici dell’ultimo ventennio e quanto hanno inciso in tutti noi e nel nostro modo di vivere. Un confronto temporale quindi ma anche di suoni e immagini attraverso una performance audio visiva unica per intensità  e potenza evocativa.

Un sapiente connubio tra la riproposizione musicale per intero ma random di tutti brani dell’album “Mezzanine”, inframmezzati da omaggi cover a gruppi ispiratori (e campionati) come Velvet, Cure, Bauhaus, Ultravox e il compianto Avicii e il contestuale concept visivo curato dal regista Adam Curtis, affascinante e allo stesso sconvolgente , in questo sequel serrato e senza pause (quasi in stile “Arancia Meccanica”) di immagini simbolo dell’ultimo ventennio tra frivolezze, fantasia, crudeltà , efferatezze e dolore , storia e costume il tutto scandito da moniti e slogan (anche in italiano).

Il pubblico, catturato in termini emotivi ed emozionali, pur approvando è rimasto spettatore. La band infatti ha tenuto rigorosamente la sua distanza, non ha ammiccato ne’ si è concessa alla platea in alcun modo, concentrata, in tutti i suoi interpreti principali dal monumentale Horace Andy, alla celestiale Liz Frazer, agli onnipresenti 3D e Daddy G, nell’affrontare il compito di rielaborazione di un sound ormai identitario riaffermando con forza quelle scelte innovative fatte vent’anni fa, che resero epocale “Mezzanine”.

Una performance straordinaria, perfetta, senza sbavature, quasi metronomica nel rispetto dei tempi e degli spazi, volutamente caotica nel dar ampio spazio alla parte ritmica e alle distorsioni esasperate delle due chitarre elettriche, cupa e oscura nel non rinnegare l’anima ispiratrice dell’album, angosciante nella lettura di un presente che non consente di sognare.

Era questo il loro messaggio al pubblico, null’altro era dovuto. è proprio vero, occorre lasciarsi alle spalle i fantasmi del passato, occorre costruire il futuro. Loro lo stanno facendo.

Credit Foto: Platonova Alina (ru: Платонова Алина), CC BY-SA 3.0, via Wikimedia Commons