“Cascadia”, il sesto album dei Said The Whale uscito a febbraio per Arts & Crafts, è un disco facile e puro.
Facile nel senso di orecchiabile, immediato, pieno di ritornelli che si incastrano immediatamente in mente. Puro nel senso di chiaro, coerente, che definisce la direzione del trio canadese che ormai si aggira per le vie della musica da più di una decina di anni.
La band di Vancouver rimarca una scelta sonora precisa: un pop sognante e ovattato, che profuma di West Coast.
“Cascadia è anche il nome di un possibile Paese tra la Columbia Britannica e gli Stati Uniti dell’Ovest”, racconta poi Tyler Bancroft. “E quel posto è la manifestazione fisica della nostra musica”.
Synth, cori, atmosfere a tratti vintage, ritmiche regolari e scandite e ritornelli catchy vanno a plasmare una maturità  compositiva che permea le dodici tracce di un’energia tranquilla e positiva, anche quando cantano “Call me an asshole” in “Level Best”. Più si prosegue nell’ascolto, più i ritmi si ammorbidiscono e le sonorità  si calmano, come in un lento ingresso nel mondo dei sogni.

Positiva ma non ingenua: quando si viene ai contenuti i Said The Whale non possono fingere che tutto vada ben. Cercano di mantenersi sorridenti verso il futuro, ma fanno trapelare il peso di quest’epoca, delle centinaia di incertezze che ogni giorno ci riserva e che schiacciano chi la vive. Come in “Shame”, dove si parla di come il peso degli errori commessi non può abbandonarci mai.
Ma non mancano canzoni più dolci, ad esempio la delicata “Old Soul, Young Heart” dedicata al musicista Dan Mangan oppure “Love Don’t Ask”, e altre più cariche di energia, come l’opening track “Wake up” e la successiva “UnAmerican”.

Insomma, probabilmente “Cascadia” non è quel genere di un disco da riascoltare allo sfinimento, di cui innamorarsi pazzamente. Ma è un’oasi sonora piacevole dove lasciarsi coccolare un po’ e imparare a godersi la vita, nonostante tutto.