Il 9 aprile del 1984 usciva il secondo album dei R.E.M., a un solo anno dalla pubblicazione del fortunato debutto avvenuto con il seminale”Murmur”.

Fu quello un esordio ben salutato in particolare dagli ascoltatori più avvezzi a certo rock, in un contesto storico dove a farla da padrone erano sintetizzatori, suoni plastificati che andavano di pari passo con un’immagine degli artisti altrettanto artefatta. Nulla a che vedere con questi quattro ragazzi provenienti dal Sud degli Stati d’Uniti, precisamente dalla cittadina di Athens in Georgia.

Il cantante Michael Stipe, il chitarrista Peter Buck, il bassista Mike Mills e il batterista Bill Berry provenivano tutti da background musicali che affondavano le radici altrove, affascinati com’erano in egual misura tanto dallo scintillante pop folk dei Byrds, quanto dalle oscurità  aspre dei Velvet Underground, con suggestioni che, specie nel caso del bizzarro e timido cantante, tiravano in ballo la poetessa del rock Patti Smith.

Il tutto senza disdegnare le proprie origini, attingendo per sentire comune anche dagli eroi di casa B-52’s, e sostenendo in prima persona una nascente scena underground locale, che li vedevano fra i più attivi e apprezzati dai giovani universitari, assieme ai coevi Pylon.

La Athens di inizio anni ’80, nei ricordi dei protagonisti, era qualcosa di non dissimile dalle comuni hippie di un paio di decenni prima, e il clima promiscuo e festoso, pieno di fermento, si rifletteva in parte anche nella musica, seppur non mancassero nei R.E.M. riferimenti “alti” sin dai loro primissimi vagiti musicali.

Stipe in particolare fu presto eletto a guru da quelle schiere di giovani che faticavano a seguire il flusso dei suoi versi in musica, ma ne rimanevano estremamente affascinati. L’entusiasmo delle college radio e di qualche illuminato dj, oltre che di un’etichetta come la I.R.S. che ambiva a crescere puntando su di loro,   non andava molto di pari passo però con i gusti mainstream del periodo, se pensiamo che, in contemporanea a “Murmur”, uscì il best-seller “Thriller” di Michael Jackson. Eppure nel 1983 la rivista “Rolling Stone” proclamò proprio l’esordio dei R.E.M. come miglior album dell’anno.

Un riconoscimento di prestigio per un gruppo alle prime armi, che si impegnarono subito a bissare l’exploit,   scrivendo nuove canzoni per un degno seguito. Già  nella loro prima apparizione televisiva nazionale nella seguitissima trasmissione “Late Night With David Letterman”, sul finire del 1983, i Nostri eseguirono una canzone inedita, che poi sarebbe rientrata nel nuovo disco, divenendo una delle più amate e coinvolgenti della prim’ora.

Si trattava della melodicissima “So.Central Rain” che al solito, scavando in profondità  e cercando di elaborare i pensieri del suo autore Michael Stipe, faceva riferimento a un fatto ambientale accaduto di recente in Georgia, infestata dalle alluvioni.

Michael Stipe è ancora bruco che deve mutare in farfalla, lontano dall’istrionico frontman dei tardo anni ’90/2000: sul palco è immobile, con gli occhi chiusi semi nascosti da lunghi riccioli che gli cadono sulle spalle, più vicino a un ombroso Jim Morrison (peraltro uno dei suoi dichiarati idoli giovanili) che alle pop star che tanto si atteggiavano negli anni ’80.

Era evidente che a Buck, tra i più preparati musicalmente, seppur inesperto con lo strumento e lontano da virtuosismi, come allo schivo Bill Berry interessassero poco le patine e i lustrini, lo stesso dicasi per l’eclettico Mills che qui sembrava il prototipo perfetto del bassista new wave.   Eppure, in maniera inconsapevole, gli ancora acerbi R.E.M. stavano tracciando una via, di ritorno al rock, che partendo dalla scena indipendente, sarebbe deflagrato nel giro di un lustro. Non tutte le band del periodo avrebbero fatto il grande passo, pensiamo ai loro amici Pylon, ma altri sull’esempio dei georgiani, presero spunto per continuare a proporre la propria musica lontano da schemi e mode.

A differenza del primo album, dove fu necessaria stabilire una scaletta, pescando da canzoni scritte sin dagli albori degli anni ’80 e già  abbondantemente proposte in concerto (quasi che “Murmur” fosse una sorta di greatest hit ante litteram), per “Reckoning” il gruppo si chiuse in studio con i fidati produttori Mitch Easter e Don Dixon, e in soli due mesi se ne uscì con una nuova raccolta di canzoni che ne certificava, all’insegna della continuità , una crescita e una maggiore consapevolezza, oltre che una grande e ispirata urgenza creativa.

Non che il gruppo vivesse nell’oro e godesse dei frutti della notorietà  acquisita, ma nell’aria c’era comunque elettricità , e anche registrando si narra che i quattro musicisti si divertirono a sperimentare soluzioni particolari. Strano poi che, a conti fatti, “Reckoning” suoni in realtà  molto più asciutto e diretto rispetto al suo predecessore, con la chitarra più in primo piano e melodie piene e già  ampiamente cantabili e riconoscibili. Pensiamo alla già  citata “So. Central Rain”, alla frenetica “Pretty Persuasion” o all’iniziale “Harborcoat”, dal testo particolarmente bizzarro, sin dal titolo, che tira in ballo, con un neologismo, uno strano cappotto impermeabile in grado di riparare dalla pioggia. Acqua che diviene elemento ricorrente e filo conduttore: lo stesso “Reckoning” ha come sottotitolo “File Under Water”, che suona come “catalogare alla voce acqua”.

Il disco, composito e lineare, senza cadute di tono dall’inizio alla fine, annovera già  alcuni fra i testi più strani e difficilmente interpretabili di Micheal Stipe. Canzoni come l’incalzante “7 Chinese Bros.” va letta inevitabilmente su più piani, dove vengono mescolati citazioni letterarie e fatti reali vicini alla band. Lo stesso capita nella bucolica e soave “Time After Time (Annelise)” che al contrario, accanto a una melodia calda e dolce, rievoca una notte brava di Mike Mills con due amiche (tra cui la futura moglie di Peter Buck, anche se al momento non poteva certo prevederlo!). In egual modo il (non ancora occhialuto) bassista, ma abilissimo anche al piano, sarà  protagonista in prima persona, non solo come autore del brano, della ritmata e countryeggiante “(Don’t Go Back To) Rockville”, in cui si ritrova a implorare una ragazza di rimanere a divertirsi ad Athens anche per le vacanze estive. La bella in questione era Ingrid Schorr, del giro delle Oh-Ok, band emergente che faceva capo a Linda Hopper e dove al basso figurava la sorellina di Michael Stipe, Lynda.

E’ un disco che, pur partito tra buonissimi propositi e all’insegna di un rinnovato ottimismo, nasconde tra le pieghe anche un senso di malinconia per i bei tempi andati, come se si trattasse di un saluto alla spensierata giovinezza, sintetizzata da quella “Camera” (a mio avviso il miglior brano dell’album), così diversa dal loro repertorio del periodo e dedicata alla fotografa Carol Levy, loro coetanea e grande amica, scomparsa prematuramente al tempo delle incisioni. Riferimenti sparsi e criptici sulla triste vicenda echeggiano anche nelle già  citate “7 Chinese Bros.” e nel singolo “So. Central Rain”.

Insomma, quel fatto si riflettè inevitabilmente sull’umore generale e segnò metaforicamente la fine appunto di una fase per portarli di colpo tra i “grandi”, alle prese con responsabilità  e con una passione, quella per la musica, che stava per diventare qualcosa di molto più serio. Era in fondo il sogno nascosto di Stipe e soci, che è un po’ quello che accompagna tutti coloro che iniziano a imbracciare gli strumenti.

La cosa eccezionale fu che i R.E.M. seppero raggiungere – la storia lo dimostrerà  ampiamente – traguardi incredibili, sino ad assurgere a metà  anni ’90 a band più importante del mondo (assieme agli U2, con i quali ebbero più di un’affinità , non solo musicale) senza snaturarsi, senza mai dimenticare da dove erano partiti.

E un disco come “Reckoning”, dopo 35 anni, è una fotografia fedelissima della prima fase dei i R.E.M., quella più genuina, scintillante, in cui erano ancora i sogni e le speranze a dettare scelte e aspettative.

R.E.M. – Reckoning
Data di pubblicazione: 9 Aprile 1984
Tracce: 10
Lunghezza: 38:11
Etichetta: I.R.S Records
Produttori: Mitch Easter, Don Dixon

Tracklist:

  1. Harborcoat
  2. 7 Chinese Bros.
  3. So. Central Rain
  4. Pretty Persuasion
  5. Time After Time (Annelise)
  6. Second Guessing
  7. Letter Never Sent
  8. Camera
  9. (Don’t Go Back To) Rockville
  10. Little America

Da Spotify, la versione deluxe con il disco originale rimasterizzato e un altro tratto da un live dell’epoca, all’Aragon Ballroom, contenente anche cover e nuovi brani inediti che verranno incisi in dischi futuri (“Driver 8” nel successivo “Fables of   the Reconstruction” e “Hyena” addirittura in “Lifes Reach Pageant”).