Non sono stati tempi facili per la band di Whashington D.C. Quando tutto sembrava procedere per il meglio, con il loro debut “Nothing Feels Natural” davvero niente male e con la frontwoman Katie Alice Greer ad ipnotizzare ed incantare i fan nei vari festival in giro per il mondo, è arrivata la doccia fredda. Taylor Mulitz, bassista e socio della Label (Sister Polygon) di cui i Priests sono fondatori, ha lasciato amichevolmente la band che ha contribuito a fondare nel 2011 per intraprendere la sua nuova esperienza artistica con i Flasher (ascoltatevi il loro album dello scorso anno, nel caso vi fosse sfuggito, ne vale davvero la pena).

Panico.

Evidentimente Mulitz era la mente compositiva principale e come si può intuire, Katie, Daniele Daniele (batteria) e G.L. Jaguar (chitarra) si sono visti il mondo, quel mondo che li aveva accolti protagonisti sui palchi, cadergli addosso. “E adesso? Come faremo a scrivere canzoni noi tre?“. Devo ammettere di aver tirato un sospiro di sollievo quando la scorsa estate Daniele rispose ad un mio preoccupato messaggio informandomi riguardo la partenza di Taylor ma nonostante la sua assenza a settembre sarebbero tornati in sala di registrazione. Come in tutte le storie con belle principesse protagoniste (in questa ce ne sono ben tre) non poteva mancare il principe azzurro, che ha pure un nome ed un cognome: John Congleton. Congleton ha prodotto artisti di spessore, ricordiamo St Vincent con cui vinse il Grammy nel 2014, Blondie, Lucy Dacus, Alvvays ed Angel Olsen con lo splendido “Burn Your Fire for No Witness”. Fatte le valige i tre sono volati a Dallas con Alexandra Tyson (la terza principessa della nostra storia) che sostituirà  al basso Taylor anche nel tour che seguirà  l’uscita dell’album, che i più attenti ricorderanno preceduto dal singolo “The Seduction of Kansas” con il video girato dalla Greer, che ha anche il cinema tra le sue grandi passioni, una in particolare per la nostra Lina Wertmà¼ller.

Il titolo dell’album prende spunto dal bestseller del 2004 “What’s The Matter With Kansas” scritto da Thomas Frank, un saggio che cerca di individuare i motivi del successo del conservatorismo americano. Se “Nothing Feels Natural” fu scritto mentre la valanga emotiva creata dall’elezione di Trump trascinava la Greer a scrivere testi disfattisti, con riferimenti alla debolezza del “sogno americano” o all’accelerazione che avrebbe portato una società  corrotta ed irresponsabile verso un schianto da cui ripartire, il nuovo album sembra più analizzare i motivi e le varie sfumature di quello che può portare una persona o una società  al degrado morale, lontani dalla dignità  e dallo spirito umano che dovrebbe, invece, tendere al bene comune. Concetto che può essere meglio espresso usando le parole della Greer:”…non stiamo cercando di umanizzare il ‘cattivo ragazzo’, ma stiamo cercando di dare corpo a ciò che è spesso un’immagine in bianco e nero ed esplorare la traiettoria di come una persona diventa questa cosa che tutti noi consideriamo così terribile. Non è pensato per scusare le cose che una persona sta facendo, ha lo scopo di illuminarlo.
Compito per nulla facile ma i Priests hanno sempre qualcosa d’importante da dire nelle loro canzoni.

In un comunicato stampa la band cita “Mezzanine” dei Massive Attack, “Third” dei Portishead, “The Downward Spiral” dei Nine Inch Nails gli album che hanno influenzato la scrittura dei nuovi brani. Attenzione però: il suono della band è libero da associazioni a tal riguardo, difficilmente troveremo accostamenti ad altri gruppi od artisti. Anche il loro stile si è evoluto nel tempo, già  nel precedente album erano comparse influenze jazz e funky e pure la Greer aveva abbandonato il suo classico cantato urlato ed incazzato sostituendolo con una gamma di sfumature più dolci e melodiche, anche per salvaguardare le proprie corde vocali.
Se “Nothing Feels Natural” è un album che mantiene un alto standard qualitativo per tutta la sua durata, qui ci imbattiamo in alcuni brani che non convincono. Dodici pezzi sono anche un numero superiore alla media dei dischi che vengono prodotti e quindi qualche calo dovuto a pezzi poco incisivi è inevitabile. “Jesus’ Son”, “The Seduction Of Kansas”, “I’m Clean”,   “Not Perceived” e “Texas Instruments” sono la spina dorsale dell’album, i brani che più ci convincono e che nulla hanno da invidiare a quelli contenuti nel primo loro lavoro. Manca un “JJ” o un ” Pink White House” in queste dodici canzoni, brani che sono, di fatto, dei capolavori, difficile ripetersi, soprattutto in un periodo di forte cambiamento.

Ancora ben individuati nella scena punk di Washington definire “punk” la musica dei Priests è troppo riduttivo. La loro metamorfosi è perenne, la nuova lineup ha bisogno di tempo per capire in quale punto dell’universo si trova e in quale direzione si sta muovendo. Di sicuro la luce emessa da Katie Alice Greer è sempre forte ed intensa. Non servono potenti telescopi per osservarla, le stelle a volte esplodono e si espandono, in altri casi implodono ma Katie ed i suoi sacerdoti brillano e splendono ancora, nonostante le disavventure dell’ultimo anno. Basta solo alzare gli occhi al cielo.

Credit Foto: Drew Hagelin