Trent’anni fa esatti usciva nei negozi di dischi “Disintegration”, ottavo album in studio di una band assai prolifica e rilevante come i Cure del carismatico leader Robert Smith.

Il gruppo inglese, il cui album d’esordio risaliva a solamente dieci anni prima, aveva attraversato l’intero decennio degli ’80, riscrivendo la grammatica del post punk e accentuando di volta in volta una vena introspettiva e decadente, tanto da diventare emblema e inconsapevole paladino della corrente musicale dark-gotica.

Emanazione principale di queste istanze era sicuramente il già  citato Smith, fondatore della band e principale deus ex machina, nonchè vera mente creativa.

Nei precedenti sette album in studio, corroborati da vari singoli di successo, avevano già  perlustrato i lati più oscuri dell’animo umano, con dischi di assoluto impatto come il debut album “Three Imaginary Boys” e “Pornography”, che avevano contribuito notevolmente a farli assurgere a band di culto. Poi però i Nostri avevano sentito l’esigenza di smarcarsi da certe sonorità , in modo da non venire ingabbiati in scomode e pratiche etichette.

Erano così giunti al successo commerciale, forti di album dalle venature più mainstream e facilmente assimilabili da un pubblico di massa, come “The Head on the Door” e soprattutto il successivo “Kiss Me Kiss Me Kiss Me”, che potremmo catalogare alla voce pop (seppure di matrice alternativa) senza timore di smentita.

Non furono mosse del tutto calcolate, ma più che altro ogni disco finiva col riflettere l’umore generale della band (e di Smith in particolare).

Cosa che avvenne inevitabilmente anche per questo epocale disco che andava a sancire la fine del decennio edonista per eccellenza. Loro non si erano mai mischiati con le innumerevoli band d’oltremanica caratterizzante il tipico “sound anni “’80” ma erano giunti un po’ inaspettatamente anch’essi a un successo su vasta scala, grazie soprattutto all’impatto di singoli spacca classifica, ariosi e ballabili.

Invece di festeggiare però, i Cure iniziarono a interrogarsi sul proprio futuro musicale, sulla strada che intendevano percorrere: se accelerare il processo di “commercializzazione” del gruppo, mantenendosi su standard pop o cambiare di nuovo veste, sorprendendo pubblico e critica.

Alla fine si scelse la seconda, ma anche in questo caso non sarebbe stato studiato a tavolino, nè tanto meno indolore. Gli effetti del successo stavano per minare ogni sicurezza del leader: l’ondata positiva aveva finito paradossalmente per deprimerlo e accentuare il suo lato più malinconico e disilluso. Voleva ancora comunicare qualcosa del suo mondo interiore e non si riconosceva nel prototipo della pop star, non voleva per la sua creatura una deriva simile, anteponendo la forma alla sostanza.

Ad acuire il senso opprimente di malessere e depressione fu anche lo scorrere inesorabile del tempo. Smith si apprestava a compiere trent’anni, un’età  non certo da pensione, ma tale da porgli degli ulteriori interrogativi sulla sua vita e la sua arte. Temeva in pratica che il meglio per lui fosse già  alle spalle, se non altro artisticamente parlando.

Mai come per la (complicata) genesi di “Disintegration” si può parlare di un progetto a nome Robert Smith: sua è la matrice, sua l’ispirazione sublime, sua infine la sincera disperazione ma anche, soprattutto, la voglia di gettare la maschera e tornare alle tematiche dei primi album.

L’insicurezza in lui era tale da proporre di far uscire quelle canzoni, partorite dal suo animo inquieto e tormentato, in un album solista, se non fossero state apprezzate dai suoi sodali, all’epoca il bassista Simon Gallup, il chitarrista Porl Thompson e il batterista Boris Williams e il tastierista Roger O’Donnell, appena entrato a far parte del combo.  

Non faceva più testo invece uno con i Cure sin dagli esordi, quel Laurence Tolhurst, il cui apporto era stato deficitario già  nel precedente disco a causa di pesanti problemi con l’alcool; di fatto egli fu estromesso non senza strascichi durante queste registrazioni, finendo con l’esasperare tutti col suo comportamento, in particolare proprio il suo ex compagno di scuola e vecchio amico Robert Smith e Simon Gallup.

Le canzoni, nonostante i dubbi del suo autore, piacquero eccome agli altri, e ci fu una naturale comunione di intenti al fine di elaborarle e renderle al meglio. Fu così che quei testi, così intimi e profondi, associati a musiche al più lente e ossessive, trovarono una straordinaria linfa vitale grazie a un utilizzo massiccio ma non opprimente di tastiere e a un lavoro in fase di produzione atto a enfatizzare meravigliosamente le molteplici declinazioni dei sentimenti evocati.

Sentimenti che sono i più veri mai espressi da Smith, qui accreditato come unico autore di testi e musiche (oltre che all’opera come co-produttore), che si è svuotato in queste 12 tracce, mettendosi a nudo e forte oltretutto di un lirismo che qui raggiunge il suo apice.

E’ un vero viaggio nella sua mente e nel suo cuore, e non ci si sbaglia definendo “Disintegration” un concept album, con l’amore che diviene trait d’union tra i vari episodi.

Amore tormentato, agognato, disperato, assente, invocato, desiderato, allontanato e anche, in un brano paradigmatico (“Lovesong”, accorata dedica alla moglie Mary), letteralmente dichiarato.

Un disco maestoso, aperto dalle strumentali e oniriche note di “Plainsong”, a dettare il mood dell’intero lavoro, anticipando una delle vette della raccolta, la nota “Pictures of You”, perfetta sintesi del loro intero percorso musicale, tra pop, dark e wave.

E’ una canzone straordinariamente malinconica e struggente, ma il sogno viene una prima volta interrotto da “Closedown”, in cui appaiono le prime riflessioni dell’autore sugli effetti ambivalenti dell’amore, in grado di opprimere.

Subito dopo però viene in soccorso la già  citata “canzone d’amore” per eccellenza del repertorio di Smith. Testo se vogliamo semplice e diretto, accompagnato da una musica cristallina e romantica (senza scadere però assolutamente nel melenso).

E’ quasi antitetico l’umore della successiva “Last Dance”, in cui si allude a un ballo dell’addio, al perduto amor su una musica claustrofobica, memore degli esordi post punk.

Un amore finito lascia in ognuno di noi delle scorie e relative conseguenze, e nel caso del leader dei Cure  si materializzano in terribili incubi che vengono ad attanagliarlo in “Lullaby”, di contro la canzone più orecchiabile del disco. Con il suo fascino “malato”, l’azzeccato video e l’ormai celebre e sussurrato incedere, diventerà  uno dei singoli più conosciuti e amati di tutta la loro carriera.

La seconda parte dell’album toccherà  vette musicali e narrative ancora più alte, andando a sondare gli angoli più remoti dell’anima. Inizia il percorso di purificazione e di rinascita del protagonista, che prima si lascia andare alla rabbia e alla frustrazione nella martellante “Fascination Street”, per poi cadere vittima di sè e della propria disperata angoscia nelle intense e spettrali “Prayers For Rain” e “The Same Deep Water As You”, in cui si invoca una pioggia che possa portare via con sè il crescente nichilismo.

Si arriva così alla title track, incalzante e assoluta, in cui Smith mostra ormai il rapporto d’amore lacerato in maniera irreversibile. Il cantato è viscerale, pieno, implorante e rassegnato. Una discesa negli inferi che dovrà  per forze di cose rappresentare una svolta: lasciarsi andare sempre più giù negli abissi o provare a riemergere in superficie e reagire.

La risposta sta nelle due canzoni che concludono il viaggio, in cui le atmosfere si fanno più placide e raccolte, lasciando all’ascoltatore una parvenza di serenità  e di compiutezza.

In “Homesick” si fa largo il senso di nostalgia, il ricordo di un amore che viene a bussare quando meno ce l’aspettiamo, mentre “Untitled” lascia aperti degli spiragli di redenzione e nuova vita. L’animo è sì spossato ma anche finalmente pronto ad affrontare nuove sfide, nuove esperienze di vita.

E’ un disco che si discosta notevolmente dal resto della produzione: più maturo, compatto e omogeneo rispetto ai predecessori e che musicalmente e concettualmente, come detto, va a riallacciarsi ai toni dark di “Pornography”, tanto da comporre una trilogia poi completata con “Bloodflowers”, per il quale si dovranno però attendere altri 11 anni.

Nel mezzo i Cure mostreranno altre facce della stessa medaglia, un volto e un animo via via più solari e pacificati ma mai pienamente appagati.

In tutto ciò “Disintegration” è una felice summa di contrasti e l’emblema di come un’opera quando è sincera, anche nella sua crudezza, può riuscire comunque a raggiungere tanti cuori. A dispetto delle catastrofiche previsioni della loro casa discografica, infatti, l’album mieterà  grande successo in tutto il mondo, con tutto il suo carico di epica complessità .

The Cure – Disintegration
Pubblicazione: 2 maggio 1989
Tracce: 12
Durata: 72:21
Etichetta: Fiction Records (UK); Elektra Records (USA)
Produttore: Robert Smith, David M. Allen
Tracklist:

1.Plainsong
2.Pictures of You
3.Closedown
4.Lovesong
5.Last Dance
6.Lullaby
7.Fascination Street
8.Prayers for Rain
9.The Same Deep Water as You
10.Disintegation
11.Homesick
12.Untitled