Dal Galles alla conquista del mondo. O almeno ci provano i Catfish and the Bottlemen, capitanati dal carismatico Van McCann.

“The Balance”, terzo album del combo che comprende oltre al citato cantante anche Johnny Bond (chitarra), Benji Blakeway (basso) e Bob Hall (batteria), prosegue sul solco (sicuro) improntato lungo il cammino dai primi lavori, in particolare del precedente “The Ride”, che riuscì a issarsi fino in cima alla classifica inglese.

Più che proseguire, possiamo dire che ricalca in tutto e per tutto quella fortunata formula, all’insegna di un rock piuttosto innocuo e ben poco innovativo ma che in un periodo in cui non sono certo le chitarre a farla da padrone, viene da più parti salutato come un nuovo avvento.

Ma basta davvero così poco nel panorama musicale attuale per essere visti come portatori dei valori sani del rock?

Un prodotto che più perfettino e ragionato non si può, con i rampanti singoli di lancio (“Longshot”, “Fluctuate” e “2all”) messi in fila in apertura di album, a dettarne subito le coordinate. Canzoni indubbiamente ariose e dal forte imprinting melodico, con la seconda in particolare che si apre in un imponente ritornello, quasi fosse pensato per essere cantato in coro in una grande arena.

O magari è proprio così e con questo disco i quattro mirano nemmeno troppo velatamente ad allargare a dismisura il proprio pubblico. Proposito legittimo, per carità , ma perseguito senza aggiungere ingredienti peculiari alla loro proposta artistica, come a dire “zero rischi”.

Oltre ai citati assi pigliatutto, infatti, anche canzoni come “Conversation” ““ che abbassa leggermente i toni, non rinunciando comunque al ritornello di facile presa, autentico marchio di fabbrica della band ““ la successiva “Sidetrack” o la ritmata “Basically” hanno le carte in regola per assolvere al compito.

A latitare paurosamente sono però i guizzi di fantasia, i lampi accecanti che sarebbe lecito attendersi da un gruppo in ascesa, così che dall’inizio alla conclusiva “Overlap”, non fosse per un unico episodio lento, che pare c’entrare poco col resto (“Intermission”, in pratica un arpeggiato intro di “Mission”), sembra di trovarsi davanti a un unico flusso sonoro, con episodi al più anonimi e inchiodati a facili soluzioni mid – tempo.

Non so voi, ma io dalla musica, specie da quella rock, mi aspetto qualcosa di più “urgente”, in grado di veicolare e portare con sè emozioni forti, viscerali, che sappia ancora in qualche modo sorprendere.

Nelle canzoni dei Catfish and the Bottlemen, invece, a dispetto di testi che certificano la loro attitudine da bad boys  (con tanto di approntato marchio “Parental Control” in copertina), sento solo tanto esercizio e ben poca genuina ispirazione.