Mai come in questo caso è necessario spogliarsi di tutti gli inevitabili pregiudizi legati a questo disco pluripremiato, nel bene e nel male simbolo degli opulenti anni ’80.
Sfido chiunque lo abbia vissuto all’epoca, rientrando tra coloro che non seguivano esclusivamente il mercato mainstream, a non odiarlo per partito preso.

In quel momento le fazioni di ascoltatori immagino potessero essere le seguenti:

  • l’ascoltatore medio che scopriva Springsteen per la prima volta, che accolse “Born In The Usa” come un trionfo e il nostro come nuovo eroe del rock americano sui generis;
  • il fan di Springsteen che era già  ben conscio che con album strepitosi come “Born to Run”, “Darkness on the Edge of Town”, “The River” e “Nebraska” (che sequenza da brividi”…), Bruce fosse già  entrato nella storia del rock e che accolse “Born in The Usa” quasi come un tradimento, costretto a condividere con la massa l’amore per Bruce;
  • il fan di cui sopra che apprezzò invece il nuovo corso di Bruce e che comprese che si trattava comunque di un capolavoro, tralasciando che ormai Bruce fosse diventato un fenomeno mediatico che rivaleggiava con star come Michael Jackson, Prince e Madonna;
  • l’ascoltatore attento ed appassionato di musica che, d’ora in poi, si vergognava di dichiarare che potesse piacergli Springsteen, il quale fastidiosamente appariva ovunque, vendeva decine e decine di milioni di copie: con il nuovo look maglietta bianca, bandiera americana e muscoli era poco “cool” per costoro.

Ma dimentichiamoci di essere nel 1984 e senza indugi scriviamolo chiaramente: “Born in The Usa” è l’ennesimo capolavoro di Bruce Springsteen, uno dei pochi artisti rock che non sbagliò un disco dal 1973 al 1987.
Ciò che parlano sono le canzoni e se andate a scorrere la scaletta la qualità  è impressionante, al di là  che poi fosse (e sia) un disco studiato per sfondare e contenga una serie nutrita di hit singles spacca classifiche.

Oltre a farvi riflettere sulla bontà  delle canzoni, scevri da pregiudizi, vorrei invitarvi ad una riflessione per quanto concerne gli arrangiamenti e la produzione.
Incontestabile che il suono, rispetto al passato, assuma una chiara patina edulcorata in modo che il disco possa essere in linea con il gusto imperante dell’epoca e possa far diventare Bruce Springsteen una star tra le star (ad esempio dimenticatevi il pianoforte di “Backstreets” o l’organo dylaniano, sostituiti da un effluvio di tastiere).
Detto ciò provate ad ascoltare il suono dell’epoca e dischi di altri artisti che provarono ad adeguarsi alle mode sonore degli anni ’80 (prendete tra i mille esempi alcuni LP anni ’80 dei Rolling Stones) e confrontateli con i suoni e la produzione di “Born in the Usa”, che riesce nel miracolo di essere sì un disco mainstream degli anni ’80, ma senza invecchiare e senza essere troppo infettato dalla produzione tipica di quegli anni, errore che fu fatto, invece, in sede live per il tour ’84-’85, con l’utilizzo di una pompatissima ed effettata batteria.

Il disco nasce per portare il rock a stelle e strisce nelle case di tutto il mondo e per piacere a tutti. Bruce gioca con la sua immagine e si presta a situazioni imbarazzanti come il video di “Dancing in the Dark” (questa forse l’unica traccia dell’album rovinata da un arrangiamento davvero troppo plasticoso) e non chiarisce a sufficienza l’equivoco che lo vuole tutto muscoli e patriottismo.

Se però si vanno ad analizzare i testi, dietro ad una confezione sonora spesso gioiosa, si nascondono tematiche molto profonde (figlie degli stessi temi affrontati nell’umbratile “Nebraska”), contenute in liriche magnifiche espresse con il consueto ed efficace taglio cinematografico, dove si staglia l’immagine di un’America, che dietro la facciata, non è così vincente e democratica come vuol mostrarsi.

Per convincervi basti leggere quello della famosa ed equivocata title track, ritratto a tinte fosche di un reduce del Vietnam, che solleva disperato una richiesta di aiuto e il suo dichiararsi “Nato negli Stati Uniti” è tutt’altro che grido d’orgoglio.

Il disco “pop” di Springsteen “Born in The Usa”, al di là  di quanto e come ha venduto, rimane dunque un capolavoro, ma di tenore diverso da quelli precedenti fino a “Nebraska”, che rimangono superiori.
Personalmente mi resta sempre il rammarico che i più lo ricorderanno legato all’immagine “tamarra” di quel periodo e solo per questo disco (o, addirittura, solo per alcune canzoni di esso) e non per brani come “Born to Run”, “Thunder Road”, “Racing in the Street” e l’elenco potrebbe diventare interminabile: proprio lui, Bruce inarrivabile live performer, uno tra i giganti del rock , sia come talento che come rilevanza.

Seguirà  nel 1987 il coraggiosissimo (ed ispirato) “Tunnel of Love”, forse l’ultimo disco realmente rilevante/ispirato del nostro, poi seguirà  una produzione intelligentemente parca fino agli anni 2000, finchè la sensazione del tempo inesorabile che scorre non lo porterà  ad aumentare la produzione discografica, non sempre con esiti all’altezza del suo genio, ma comunque con punte più che dignitose (“The Rising” per tutti).

Bruce Springsteen – Born in the U.S.A.
Pubblicazione: 4 giugno, 1984
Genere: rock/ pop-rock
Lunghezza: 46:57
Label: Columbia
Produttori: Jon Landau, Chuck Plotkin, Bruce Springsteen, Steven Van Zandt