“Happy Sad” è un ossimoro, un contrasto che ben descrive l’anima di un artista complesso come Tim Buckley. L’anima o meglio le anime, perchè in Buckley convivevano influenze e pulsioni diverse: quella del cantautore e quella del musicista che voleva sperimentare, andare oltre i ristretti confini del folk. Il terzo album uscito nel 1969, che oggi raggiunge la mezza età , è quello in cui Tim ha iniziato a dare sfogo al lato più avanguardistico di sè.

La foto in copertina non potrebbe essere più diversa dal ritratto solare che abbelliva “Goodbye And Hello” uscito due anni prima: il ragazzo sorridente ha lasciato il posto all’uomo dallo sguardo basso, serio e tormentato. Prodotto da Jerry Yester e Zal Yanovsky dei Lovin’ Spoonful, “Happy Sad” rivela la curiosità  di Buckley per arrangiamenti vicini al jazz.

Una sensazione confermata dalle fitte trame sonore intessute dalla chitarra solista di Lee Underwood, dal contrabbasso di John Miller, dalle percussioni di Carter Collins e dal vibrafono di David Friedman che accoglie l’ascoltatore in “Strange Feelin'”. L’assenza illustre è quella del paroliere Larry Beckett, che aveva scritto i testi dei primi due dischi.

In “Happy Sad” è Buckley a salire in cattedra: si lascia ispirare da Miles Davis (la melodia di “Strange Feelin'” è un omaggio a “All Blues”) e dalle traversie di una vita non certo avara di emozioni (come dimostra la struggente “Dream Letter” dedicata all’ex moglie Mary Guibert e al figlio Jeff). Il terzo album è soprattutto quello in cui Tim Buckley inizia a “cantare la voce”: a farla vibrare, a usarla come un vero strumento insieme all’amata chitarra a dodici corde.

Sembra una lunga jam session, i brani anche se scritti in momenti molto diversi (“Buzzin’ Fly” risale agli anni adolescenziali di Buckley) sono stati arrangiati per vivere fianco a fianco in una settimana di furiose registrazioni notturne. Ancora oggi molti ricordano quest’album come quello in cui compare la sinuosa e intrigante “Gypsy Woman” ma sarebbe riduttivo limitarsi a quei dodici avventurosi e viscerali minuti.

Non vanno sottovalutati i dieci primi e quarantanove secondi di “Love from Room 109 at the Islander (On Pacific Coast Highway)”. Due pezzi nati separatamente (compaiono col nome di “Asbury Park” e “Danang” nella raccolta “The Dream Belongs to Me: Rare and Unreleased 1968 ““ 1973”) e uniti da un testo che lascia poco all’immaginazione: “The smell of your sweet skin does entangle my dream / Oh may I stand here awhile living your smile“.

Il terzo album di Buckley ha esordito al numero centosettantotto della classifica di Billboard per poi salire fino all’ottantunesimo posto, dove sarebbe rimasto per tre settimane. Senza “Happy Sad” non sarebbero esistiti il successivo “Blue Afternoon” (uscito pochi mesi dopo a novembre del 1969) o “Lorca” (registrato a settembre del 1969).

Un gruppo di dischi nato in un periodo incredibilmente fertile per Tim Buckley, finalmente libero di osare e di essere se stesso. “Tim era un rinnegato” ha ammesso molti anni dopo David Friedman in “Dream Brother” bel libro di David Browne parlando di “Happy Sad” “Nessuno era veramente contento di quello che stava facendo ma faceva quello che voleva quindi era spesso Tim contro tutti“.

Tim Buckley ““ Happy Sad
Data di pubblicazione: 10 luglio 1969
Tracce: 6
Lunghezza 44:43
Registrato a: Elektra Sound Recorders (Los Angeles) dicembre 1968
Etichetta: Elektra
Produttori: Zal Yanovsky e Jerry Yester

1. Strange Feelin’
2. Buzzin’ Fly
3. Love from Room 109 at the Islander (On Pacific Coast Highway)
4. Dream Letter
5. Gypsy Woman
6. Sing A Song For You