Oggi la questione non è tanto quella di poter esprimere ciò che si è davvero, quanto, invece, quella di raggiungere i propri obiettivi di successo tramite il compiacimento degli altri. Ci vengono proposti modelli vincenti e ci viene detto che solo seguendoli sarà  possibile ottenere l’agognata fama. Questo subdolo ed omologante meccanismo porta con sè i germi del disprezzo e del disgusto verso coloro che non si conformano a questi discutibili ideali di perfezione.

Le varie piattaforme multimediali, da Instagram a Youtube, diventano, agli occhi di molti, una sorta di scorciatoia per accaparrarsi qualche briciola di notorietà . Ma, ovviamente, tale notorietà  difficilmente può trasformarsi in qualcosa di duraturo che vada oltre il celebre quarto d’ora ipotizzato da Andy Warhol. Per gli antichi Greci il “Kleos“, la gloria, sarebbe giunta solo grazie a gesta eroiche e grandiose e spesso solo a patto di sacrificare la propria vita per una causa ritenuta giusta.

Oggi, se Ettore morisse per difendere la sua città  natale contro gli invasori Achei non farebbe, probabilmente, alcuna notizia. In fondo questi sono tempi estremamente fluidi, viviamo in metropoli sovraffollate, nelle quali il singolo individuo non ha, praticamente, quasi nessuna speranza di poter fare la differenza, mentre la penetrazione dei media nella società  tende sempre più a spersonalizzare chiunque rivolga a loro la propria attenzione. Molti tentano la strada del web per affermarsi ed i più pericolosi e disonesti tra loro sono quelli che giocano con le sensazioni ed i sentimenti più viscerali della gente comune, che, avendo sempre più difficoltà  a far quadrare i propri bilanci, ha bisogno di un nemico semplice e riconoscibile a cui dar la colpa della situazione ed ovviamente è molto più facile prendersela con un estraneo, uno straniero, soprattutto se egli è diverso da noi, piuttosto che contro con una oscura lobby finanziaria, nascosta dietro i luminosi schermi dei nostri smartphone e composta da persone che, tutto sommato, sembrano proprio essere uguali a noi e rispecchiare quei modelli che tentiamo, invano, di seguire.

Quando il maggiore Tom si trovò, finalmente, lassù nello spazio, ad orbitare attorno a quella scatola di latta che era la sua navicella spaziale ed a fissare quel minuscolo pianeta blu, non sapeva affatto, probabilmente, di essere divenuto una delle persone più famose della Terra. Non sapeva che laggiù stessero stampando t-shirt dedicate alla sua impresa; egli si sentiva, semplicemente, attratto da quel silenzio profondo e meditava sull’impotenza  dell’essere umano rispetto all’immensità  dell’Universo. I suoi pensieri erano per la moglie e per tutti quelli a cui voleva bene, indipendentemente dai modelli di comportamento e successo, indipendentemente dalla fama passeggera, perchè basta poco per perdere ogni cosa: è sufficiente un circuito elettronico che si guasta all’improvviso. E così il maggiore Tom si ritrovò, solo, a vagare chissà  dove. Non avrebbe mai visto quelle t-shirt colorate col suo nome; non avrebbe mai rimesso piede sulla Terra; non avrebbe più riabbracciato sua moglie. Sarebbe rimasto lì, a fluttuare nel nulla assieme al suo eterno “Kleos“.

“And there’s nothing I can do”.

Esattamente 50 anni fa, l’11 Luglio del 1969, poco prima del primo sbarco sulla Luna, David Bowie pubblicò questo singolo, “Space Oddity”, una riflessione sui misteri dell’Universo, sulla fragilità  dei sentimenti e della stessa esistenza umana, sull’inutilità  e la transitorietà  della fama e del successo.