Non mi sembra strano definire Stephen Jones come una specie di Prince. E lo dico con tutto il rispetto (immenso) che ho per il genio di Minneapolis. Eppure anche Stephen Jones è un musicista con una creatività  infinita, che si sente stretto quando non pubblica qualcosa (e infatti le nuove uscite sono davvero tante!), che cerca nuove vie, nuove manifestazioni per esprimere quello che ha in testa: non disdegna di cambiare nome artistico così come non disdegna la sperimentazione.

Molti conoscono Babybird giusto per due classici anni ’90, ovvero “Goodnight” e “You’re Gorgeous”, eppure c’è molto, molto altro. Spente le luci della ribalta il nostro non ha certo smesso di dispensare materiale sonoro di vario genere, non disdegnando affatto una dimensione lo-fi (in cui spesso lui si occupa di registrare, suonare e produrre tutto quanto), ma non perdendo di vista anche una dimensione melodica che ha davvero innata.

Per questo nuovo album il nostro ha voluto mettere le mani avanti. Le sue parole per descrivere il disco sono chiare: “It’s dark and beautiful. It’s strange and melodic. It’s not what you expected.“. Detto fatto. I toni sono bassi, dimessi. Non c’è la ricerca del ritornello vincente, ma quella di un’atmosfera che possa avvolgere completamente l’ascoltatore. Non è un passo falso, no, è un passo voluto, studiato, in una dimensione che fa della malinconia e della riflessione personale un punto di forza. E la produzione è ottima, niente lo-fi questa volta. Non è un novizio Stephen, ne ha vissute assai e vendere più o meno copie ormai non gli importa. Si può permettere senza problemi un disco così, di quelli in cui non c’è un singolo portante, ma che, ascolto dopo ascolto, lavorano come una goccia che scava la roccia.

Non spaventatevi se uso la parola trip-hop, eppure spesso nel disco si percepisce quel sound o forse sarebbe meglio dire quel mood. Battuta lenta e incedere atmosferico. Ricorre parecchio nel disco e Stephen vi si trova a suo agio per declamare le sue liriche. A tratti tutto fila davvero in modo superlativo, come in “Cave In” che si apre a un ritornello toccante. Anche l’apertura di “Too Late” è decisamente sopra la media: magnifico biglietto da visita, oscura porta d’ingresso per un mondo inquieto e tutt’altro che solare. Niente male anche i suoni ovattati e ripetitivi di “Beach Grave”. Non tutto è così vincente. Va benissimo il lavoro sulle sensazioni, ma canzoni come “Black Friday Jesus Tuesday” o “Creation Destroys Science” ci dicono poco, idem “October” dal taglio un po’ slacker/alt – rock che mi pare poco si adatti al contesto. Morbidissima invece la chiusura, quasi in punta di piedi, con quel gioiellino che è “Yeah I’m in Hollywood”, che mi ha ricordato, nella melodia, i Radiohead di “Creep” ma che la fanno come se fosse “No Surprises”. Una canzone magnifica.

Bravo Stephen, paura di essere introspettivo non ne ha assolutamente, lo dicevamo prima. Un buon lavoro.