Mi sono approcciato al disco solista del cantautore padovano Giorgio Gobbo con molta curiosità , lo ammetto candidamente. Il suo percorso alla guida di quell’interessante ensemble che risponde al nome di Piccola Bottega Baltazar (che in seguito tolse l’aggettivo dal nome) era stato coerente, sfaccettato e soprattutto lodevole nel cercare un giusto equilibrio fra tradizione popolare e canzone d’autore più propriamente detta, senza disdegnare l’importanza delle proprie radici, anzi, traendone linfa preziosa.

Culmine di un percorso, per ora lasciato in stand-by, è stato con ogni probabilità  l’essere arrivati a un passo dall’ottenere la Targa Tenco più prestigiosa, quella di miglior canzone, quando nel 2016 la loro intensa, sublime “Rugby di periferia” (inserita in “Sulla testa dell’elefante”, ultimo album sinora pubblicato con il gruppo) giunse tra i primi 5 classificati.

Gobbo, autore e compositore, nonchè elemento di spicco del collettivo, pur soddisfatto dei traguardi raggiunti, ha sentito però poi il bisogno di staccare la spina, non solo dal gruppo, ma prendendosi pure del tempo per sè, da sfruttare al meglio per riflettere, riorganizzare le idee e rimettere ordine alle priorità . Ha viaggiato molto, ma non ha dovuto varcare oceani o quant’altro: ha preferito dare fiato a un’altra sua grande passione, quella per le lunghe camminate, per le salite impervie negli altipiani, in quelle colline e montagne che proteggono dall’alto la provincia, dai Colli Euganei alle Dolomiti.

Una full immersion nella natura che è finita giocoforza per diventare poi tratto distintivo di questa prima opera uscita a suo nome, dove l’autore c’ha messo la faccia, il suo sentire più profondo. Il connubio musica-parole non poteva che essere più perfetto a vestire brani dal respiro intimo, caldo. Atmosfere bucoliche, soffuse e notturne caratterizzano infatti le 13 tracce di “Nettare dell’estate”, al più sussurrate, cantate in modo gentile, senza far rumore.

Eppure, di forza e di intensità , ne arriva all’ascoltatore! Un ascolto che mai potrebbe essere distratto, perchè, pur essendo tutt’altro che pesanti o cupi, questi brani necessitano della giusta attenzione. Gobbo però fa in modo che si venga trasportati istintivamente, in modo quasi primitivo, nel suo piccolo grande mondo agreste. E la sensazione che si ha al termine di “Arriverà  l’inverno”, che chiude il disco con un arrangiamento al quale flauto e violoncello conferiscono stringente solennità , è quella di aver davvero staccato la spina dalla frenesia quotidiana, dalla voracità  con cui compiamo spesso le nostre azioni.

Giorgio Gobbo con il suo disco ci “impone” uno stop, ma è una fermata che appunto si accetta volentieri. Vogliamo anche noi condividere emotivamente il suo viaggio. E così sentiamo in lontananza i campanacci nell’iniziale “Monte Flor” che ci accolgono in questo paesaggio incontaminato. “Come vino, come vento” detta da subito le coordinate stilistiche dell’intero lavoro e vale come efficace biglietto da visita, con la successiva “Giorni dorati” che ti fa subito immergere in quel luogo designato, tra fili d’erba e pioggerellina che ci scivola addosso, che diventa luogo dell’anima.

“Casa in via utopia” ha un crescendo musicale “alla Mumford and Sons” prima maniera, con tanto di irresistibile coretto, e anticipa uno dei brani più toccanti del lotto, “Capra zoppa” che diventa metafora di vita. In alcuni casi appare anche la nostalgia, come in “Sogno che tu venga a farmi visita al mattino” ma in generale il disco segue il viaggio dell’autore nella ridefinizione di sè, pienamente a suo agio anche (e specialmente) attorniato dal silenzio e dai paesaggi attorno, che portano tutto il peso di una storia anche antica.

Un pezzo brillante come “A Rovolon”, dall’accattivante melodia, è forse il manifesto più lampante dell’esigenza sopraggiunta di staccarsi dalla quotidianità  (“lontano da wi-fi, lontano dai guai”), anche se si sa che i problemi rimangono, ma almeno è possibile accantonarli giustamente per un po’.

Talora le melodie si irrobustiscono ma in generale si rimane in un pacifico afflato sonoro acustico, senza sbavature, con una produzione, affidata a Carlo Carcano, che volutamente ha fatto in modo di consegnarci un album “scarno”, il più possibile naturale e fedele alle intenzioni del suo titolare.

Insomma, senza timore di smentite, posso affermare di essere al cospetto di uno dei migliori album italiani dell’anno di stampo cantautorale, una prova d’esordio convincente, ancorchè molto personale. La stessa scelta di esibirsi in situazioni insolite, in location che potessero richiamare gli umori e le atmosfere dell’album, se non proprio in grandi spazi aperti nel verde, appare vincente e originale, oltre che assolutamente attinente.

Chissà  se si tratterà  di un lavoro sui generis, frutto appunto di un’esperienza vissuta intensamente, o se Gobbo intenderà  proseguire con questo tipo di linguaggio, anche musicale, molto minimale. Nel frattempo la mia esortazione è quella di concedervi i quasi 50 minuti che raccolgono questo “Nettare dell’estate”, per evadere da brutture e scazzi quotidiani e divagare verso più placide mete.