Nel suo libro “Ghosts of My Life” (da poco tradotto in italiano per Minimum Fax), il critico inglese Mark Fisher ha esplorato il concetto di hauntology: la nostalgia per futuri che non si sono mai realizzati. “Quando proviamo a pensare al “‘futuristico’, ci vengono sempre in mente riferimenti come, ad esempio, la musica dei Kraftwerk ““ sebbene sappiamo che sia ormai antica come lo era la musica jazz dell’ensemble di Glenn Miller quando il gruppo tedesco iniziava a sperimentare i sintetizzatori nei primi anni Settanta.”[1]

Holly Herndon, musicista americana residente a Berlino, è non solo un’attenta lettrice di Fisher ma un’artista che ha offerto negli ultimi anni una delle risposte più convincenti al ruolo della musica in questa epoca dominata dalla paura per le nuove tecnologie, dal desiderio di ritornare a presunti tempi migliori. In una lunga intervista di alcuni anni fa, spiegava di non avere nostalgia per il passato e di voler fare musica che appartenga pienamente al presente. Per lei, come per Fisher, la musica è uno degli strumenti più potenti per descrivere e interpretare la società  contemporanea.

Nata nel 1980 in Tennessee, si trasferisce giovanissima a Berlino per uno scambio culturale e si innamora della scena techno della capitale tedesca. Dopo diversi anni in Germania, ritorna temporaneamente negli Stati Uniti per studiare al Mills College in California, una delle più prestigiose facoltà  al mondo dedicate alla musica elettronica, dove lavora con il software Max e comincia a comporre i suoi primi brani sperimentali. Da subito apprezzata dalla critica per la sua capacità  di coniugare avanguardia e sensibilità  pop, rilascia “Movement” nel 2012, per poi approdare su 4AD nel 2015, l’anno dell’acclamato “Platform”.

Se “Platform” ruotava attorno a Net Concrète, un progetto realizzato insieme al suo compagno Mat Dryhurst per trasformare in onde sonore le quotidiane attività  di navigazione su internet, nel caso di “PROTO” la novità  è rappresentata da Spawn, un generatore di voci sintetiche basato sui meccanismi dell’intelligenza artificiale, creato con l’aiuto dell’artista e programmatore Jules LaPlace. Herndon lo utilizza in quasi tutte le tracce, ma ce lo presenta anche in una versione dietro le quinte, rompendo la quarta parete e facendoci ascoltare i momenti di training, in cui il software viene addestrato da una voce umana. Il titolo “PROTO” fa riferimento sia ai protocolli che governano i software, che a quelli che regolano il nostro vivere quotidiano: “I modi in cui usiamo la tecnologia hanno delle implicazioni molto reali nelle nostre vite, nei nostri quartieri e nelle nostre comunità .”[2]

C’è un altro libro che è necessario menzionare per comprendere il progetto e la musica di Holly Herndon, ed è “Inventare il futuro” di Nick Srnicek e Alex Williams. Manifesto del cosiddetto accelerazionismo di sinistra, teorizza la possibilità  di utilizzare la tecnologia e l’automazione per superare l’attuale sistema capitalista e costruire una società  più a misura d’uomo. L’intelligenza artificiale viene spesso descritta come inquietante e pericolosa, destinata a distruggere la civiltà  umana, ma Herndon le vede in modo affine a Srnicek e Williams: è uno strumento ancora imperfetto, da plasmare e scoprire. Insieme a un collettivo di artisti berlinesi, sovrapposti in un unico volto nella copertina del disco, Spawn è una voce aggiuntiva usata per arricchire le potenzialità  espressive dell’ensemble. “Siamo molto bravi a criticare e dire quello che non vogliamo, ma facciamo fatica a dire quello che vogliamo. Quella è la parte difficile. Il mio modo di vedere è: come i computer possono liberarci, lasciarci più tempo per essere più umani?[3]

Holly Herndon immagina Spawn come un bambino, al quale va insegnato a cantare. “Godmother”, il brano più avanguardista dell’album, è nato dalla collaborazione con Jlin, che Herndon aveva invitato a cena e che decise di diventare madrina di Spawn. Quando interagisce con la voce di Jlin, la sintesi vocale si rompe in schegge durissime: “il vagito di un neonato cresciuto al Berghain” nella perfetta definizione di Katie Hawthorne sul Guardian. In “Eternal”, uno dei singoli estratti da “PROTO”, l’anima più pop di Herndon si unisce alle voci umane/aliene generate da Spawn e il risultato è ben descritto in un commento lasciato da un ascoltatore su YouTube: “futuristico e primordiale”.

“Frontier” è un omaggio ai cori religiosi Sacred Harp della sua infanzia, ma anche ricerca di una musica ancestrale: “I nostri antenati potrebbero aver sviluppato il canto collettivo come uno strumento di sopravvivenza, così ho pensato che forse questo è un buon momento per rivisitare questa tecnologia resiliente vecchia di millenni”[4]. “Crawler” gioca invece su un coro a cappella dove è difficile distinguere le voci umane modificate dagli effetti e quella di Spawn; il concetto però è molto chiaro: “Perchè sono così smarrita?” ripete il testo fino allo sfinimento. In “Extreme Love” un simile coro diventa il background per la voce infantile della nipotina di Herndon, Lily Anna Haynes, che recita un testo dai riferimenti Asimoviani.

Ascoltato per intero “PROTO” è un disco con pochi paragoni per equilibrio tra sperimentazione e accessibilità , che trova un parallelo forse solo nei primi lavori di Björk, e non è un caso allora che a mixarlo sia proprio l’italiana Marta Salogni, che ha lavorato anche all’ultimo album dell’artista islandese. Il piccolo miracolo è che a fianco di brani cupi e taglienti come “Godmother” convivano le armonie celestiali di “SWIM”. Insieme al freddo distacco di “Alienation”, il desiderio di fisicità  di “Eternal”, “alla fin fine una canzone sentimentale” come ha osservato Alberto Campo. Valgono ancora le parole usate da Valerio Mattioli nel recensire “Platform”: “non abbastanza pop da finire tra le collezioni di canzonette, nè abbastanza sperimentale per essere avanguardia dura e pura, è un album ossessionato dall’ingombrante onnipresenza del futuro ““ e dall’idea che quello che chiamiamo futuro, stia già  accadendo ora[5].

Holly Herndon non accetta il fatalismo che vuole questo futuro/presente inevitabilmente distopico: “Non vogliamo scappare [dalla tecnologia], anzi vogliamo corrergli incontro, ma alle nostre condizioni.[6] Pensa che la tecnologia possa aumentare, invece di diminuire, le potenzialità  di un’artista. Vede chiari i pericoli delle intelligenze artificiali che setacciano i nostri dati, ma non rinuncia alla possibilità  di utilizzarle in modo differente. Ridimensiona il software al ruolo di performer, rivendicando per l’uomo il ruolo di creatore. “Forse è romantico, ma mi piace l’idea […] dell’essere ancora in grado di indirizzare le cose in una particolare direzione. Questo è il mio approccio alla tecnologia, […] come se potessimo avere un posto al tavolo in alcune di queste decisioni.[7] Lontana da ogni hauntologia per un futuro vintage, già  precipitato nel passato, e da ogni rassegnazione a un futuro apocalittico, la sua musica è quanto di più vicino abbiamo a vivere finalmente un presente musicale. “Il fallimento del ventunesimo secolo“, diceva sempre Mark Fisher, “è che il ventunesimo secolo deve ancora davvero cominciare.[8] Se iniziasse proprio da qui?