Certe band vogliono solo veder bruciare il mondo. I Mannequin Pussy, per il momento, si accontentano di osservare compiaciuti il bel mappamondo in fiamme stampato sulla copertina di “Patience”, il loro terzo album. Il quartetto di Philadelphia, fresco di contratto con un’etichetta importante come la Epitaph, sembra avere le carte in regola per fare grandi cose in futuro.

Gli ingredienti necessari perchè diventino la next big thing dell’indie rock a stelle e strisce ci sono tutti: una proposta musicale moderna ma fedelmente ancorata alla migliore tradizione alternative anni ’90; un look colorato, naturale e anche un pizzico hipster; il plauso della critica che conta, con i tipi di Pitchfork e Stereogum che già  hanno iniziato a stracciarsi le vesti per l’eccitazione.

La cantante e chitarrista Marisa Dabice ha dalla sua parte grinta, talento e passione, oltre a una voce particolarmente duttile che le permette di spaziare tra dolci sussurri (“Fear/+/Desire” e “High Horse”) e urla rabbiose (“Clams” e “F.U.C.A.W”). Se non fosse per lei, questo disco lo avrei dimenticato abbastanza facilmente.

Non che i Mannequin Pussy non meritino attenzione, anzi; di tanto in tanto, la sostanza emerge prepotentemente. Nelle ultime due tracce che ho citato, per esempio, le influenze post-hardcore e noise vengono sfruttate in maniera fresca e originale. Il fatto è che, ora come ora, mancano idee realmente degne di nota.

Questo tipo di sonorità  lo avrete sentito migliaia di volte: un po’ di grunge, un po’ di punk, una spolverata di shoegaze e dosi generose di pop per un indie rock ibrido e dinamico, ma anche abbastanza privo di personalità  e mordente. Protetti da una leggera patina lo-fi che, a esser sinceri, ha un non so che di finto e poco genuino, i Mannequin Pussy alternano cazzotti e carezze, rintronando l’ascoltatore con citazioni sparse di Breeders, Sugar, Quicksand e Drop Nineteens. Un disco carino, che di certo non nasconde il potenziale di una band che può crescere. Un po’ di pazienza e si vedrà .