Una chitarra, un basso, una batteria, zero parole. Ai Russian Circles bastano pochissimi elementi per dar forma a un suono sì compatto e granitico, ma anche vivo, dinamico e contaminato da innumerevoli influenze diverse. L’apparente naturalezza con cui il trio di Chicago dipinge i suoi paesaggi strumentali cela una complessità  e una cura dei dettagli ai limiti del maniacale: è essenzialmente questa la peculiarità  del loro viaggio post-metal, che con il nuovo “Blood Year” è giunto alla settima tappa.

Un percorso evolutivo lento ma continuo. Le sette tracce prodotte dall’espertissimo Kurt Ballou – già  membro dei Converge e, in passato, al lavoro dietro al bancone del mixer per artisti come Chelsea Wolfe, High On Fire, Code Orange e Cave In ““ rappresentano un piccolo passo in avanti per una band che, proseguendo il proprio cammino su una strada illuminata dall’esempio dei maestri (Isis e Neurosis, ma anche Brian Eno e Mogwai tra i punti di riferimento), ama più di ogni altra cosa al mondo lanciarsi in lunghe esplorazioni sonore.

L’obiettivo, c’è da scommetterci, è sempre lo stesso: trovare un’identità  ben definita, o meglio mettere in evidenza tutti quegli aspetti che, in un modo o nell’altro, caratterizzano in maniera inequivocabile i Russian Circles e li differenziano dai tanti colleghi dell’affollatissima scena d’appartenenza. L’anima post- della creatura nata nel 2004 dall’incontro tra il chitarrista Mike Sullivan, il bassista Brian Cook e il batterista Dave Turncrantz non si limita esclusivamente alla matrice metal, ma include fortissimi tratti rock e hardcore.

I primi emergono soprattutto nei momenti più melodici di “Blood Year”, che in realtà  poi non sono moltissimi: alcuni riff di “Milano” e “Kohokia”, gli arpeggi puliti della brevissima “Ghost On High”. I secondi, al contrario, occupano un ruolo assolutamente predominante: con il supporto decisivo di Ballou, il trio recupera alcune delle caratteristiche principali della scuola bostoniana ““ l’impiego massiccio del delay, il basso costantemente distorto e incredibilmente possente, la batteria pesante e dall’andamento solenne ““ e le inserisce in veri e propri macigni strumentali che rispondono ai titoli di “Arluck”, “Sinaia” e “Quartered”.

Le non sporadiche incursioni in territori progressive e black metal (Sullivan ricorre spessissimo alla tecnica del tremolo picking nelle parti più concitate e nervose) conferiscono originalità  e freschezza a un album che, pur non stregando, affascina dal primo al trentanovesimo minuto.

Credit Foto Andrea Petrovicova