Il 30 agosto 2019 è successa una cosa che noi umani non avremmo mai potuto immaginare. Tredici anni, quattro mesi e due giorni dopo l’uscita di “10,000 Days”, un nuovo album dei Tool è comparso sul pianeta Terra. Racchiuso in una confezione innovativa e ipertecnologica, “Fear Inoculum” è atterrato sugli scaffali dei negozi di dischi come fosse una navicella spaziale proveniente da luoghi ancora sconosciuti. Un oggetto prezioso sotto tutti i punti di vista: su internet lo vendono a novantacinque euro. Ben settantacinque in più rispetto a un CD normale, mica bruscolini.

Un booklet di trentasei pagine, uno schermo ad alta definizione da quattro pollici e un piccolo altoparlante da due watt sono però motivi più che sufficienti per far lievitare i prezzi. La qualità  si paga, e gli ossequiosissimi seguaci della band statunitense saranno ben felici di mettere mano al portafogli dopo aver atteso eoni l’avvento di questa quinta reliquia. Da buon miscredente quale sono, ho preferito ascoltare l’album su Spotify: la resa audio sarà  pure nettamente inferiore, ma la versione digitale di “Fear Inoculum” include tre intermezzi strumentali che, per motivi di capienza, sono stati lasciati fuori da quella fisica. L’intangibile sopra il materiale? Sì, ma di appena sette minuti. Non che sia un fatto così importante, quando l’obiettivo principale è trascendere lo spazio e il tempo.

Da sempre i Tool rifuggono da facili categorizzazioni, scalpitano per non farsi rinchiudere nei recinti di un genere musicale in particolare e lavorano con cura maniacale ed estrema lentezza ai propri brani, infischiandosene dei diktat del mercato discografico. Impossibile non provare anche solamente un briciolo di stima nei confronti di simili esempi di integrità  artistica e morale. E difatti, quando le entità  superiori che muovono i fili di questa nostra bella webzine mi hanno contattato per esprimere un giudizio su “Fear Inoculum”, sono stato immediatamente travolto dai dubbi.

Io, umile mortale nonchè persona abbastanza insignificante, sono stato selezionato per diventare il prescelto. Colui che consegnerà  il messaggio tooliano agli amici di Indie For Bunnies. Un messaggio di speranza per chi vorrà  sentirlo; un allarme per chi, comprensibilmente, preferirà  non darmi retta. Sarò in grado di portare a termine un compito così ostico e gravoso? Immergiamoci insieme in questi ottantasei minuti e trentotto secondi di progressive metal spirituale, cervellotico e poliritmico, e vediamo un po’ dove andiamo a finire.

Ad aprire le danze è la title track, un inno contro la paura con il quale i Tool sembrano voler esorcizzare tutte quelle difficoltà , tutti quei timori che li hanno bloccati per un decennio abbondante. L’inizio timidissimo, affidato alle percussioni indiane di Danny Carey e alle dissolvenze incrociate del chitarrista Adam Jones e del bassista Justin Chancellor, ci traghetta verso il cantato dolce e quasi femminile di Maynard James Keenan. Non appena entra in scena il ritornello, il brano prende un’altra piega: la band manda giù la purga, espelle il veleno e riaccende l’antico spirito metal, chiudendo i giochi con un favoloso finale schiacciasassi.

“Pneuma”, una delle tracce più articolate e complesse dell’album, segue un percorso più o meno simile: la canzone cresce con il trascorrere dei minuti, sorretta da un riff decisamente molto interessante che, sfruttando l’andamento ritmico insolito e circolare, punta a destabilizzare l’ascoltatore con accenti solo apparentemente fuori luogo. Ma io so che ogni pezzo è al posto giusto, quindi osservo la traccia scivolare via per lasciar spazio al sintetizzatore di “Litanie Contre La Peur”, una brevissima parentesi progressive dal sapor mediorientale.

Neanche il tempo di riprendersi da questa piccola botta di misticismo che riparte la giostra: tra il palm muting serrato e preciso di Jones, gli echi distorti di Chancellor e le consuete prodezze di Carey alle pelli, “Invincible” sorprende soprattutto per quanto riguarda il suo lato più elettronico, con tanto di assolo di synth e vocoder a camuffare le parole di Keenan, che si ripresenta al pubblico indossando i panni di “un guerriero che lotta per restare rilevante”.

Si vede che il silenzio prolungato deve avergli fatto perdere qualche certezza. Impossibile trovarla nel marasma dronico di “Legion Inoculant”; meglio affidarsi alla solidità  di una “Descending” che, con i suoi toni prima malinconici, poi “carpenteriani” e infine maestosi, sembra volerci riportare ai fasti del periodo tra “Lateralus” e “10,000 Days”.

A costo di passare per un superficiale, potrei presentarvi “Culling Voices” come la ballad di “Fear Inoculum”. I primi sei minuti, d’altronde, sono senza ombra di dubbio tra i più quieti dell’intero album: tutto ruota attorno a dei morbidi arpeggi, sui quali un intensissimo Keenan disegna le sue splendide, caratteristiche linee melodiche ricche di modulazioni e vibrati. Nel finale, tuttavia, un riffone di scuola stoner rock ci riporta con i piedi per terra.

è ora di smetterla di giocare a fare gli asceti: se non è stato sufficiente applicare la successione di Fibonacci all’heavy metal per avvicinarsi alla perfezione dell’universo, tanto vale andare a rispolverare quella sana, vecchia goliardia che nel 1996 rese celebre “à†nima”. E allora ecco arrivare “Chocolate Chip Trip”: un titolo ridicolo e ironico per un brano che non è nient’altro che un assolo di Danny Carey. Però che assolo, ragazzi: con Neil Peart dei Rush ormai fuori dal giro, il gigante nato in Kansas cinquantotto anni fa si erge solo soletto sul trono del miglior batterista progressive in circolazione.

A occupare la scena in “7empest” ““ che, con il suo quarto d’ora abbondante di durata, è quanto di più lungo abbiano mai scritto i Tool nella loro pluridecennale carriera ““ è però la chitarra elettrica di Adam Jones. La traccia in questione non è solamente il suo capolavoro personale, ma anche la pagina migliore di tutto “Fear Inoculum”: una bufera alt metal di proporzioni gigantesche, resa ancor più avvincente dai continui cambi di tempo, dal sapiente uso della poliritmia, dalle sfumature math e da un solo apparentemente infinito che non impressiona per il virtuosismo ma per il suono, il gusto e la personalità .

Il disco si avvicina alla fine, e io mi sento stremato. Migliaia di domande cominciano ad affollarmi la testa: “Fear Inoculum” è una meraviglia, un buon disco o una ciofeca sopravvalutata? Valeva la pena aspettare tredici anni per questo? Io credo di sì. Il lavoro merita, ma di difetti ce ne sono. Alcuni pezzi soffrono di mancanza di coesione tra le parti; l’impressione è che siano semplicemente patchwork di idee cucite tra loro alla bell’e meglio. Più le canzoni si estendono, più l’ispirazione si disperde in un labirinto di passaggi superflui o ridondanti. Maynard James Keenan brilla, ma non impressiona: dov’è la grinta? Quelle urla epiche che erano un suo fiore all’occhiello?

Inutile stare a rimuginarci sopra. Anche perchè l’album è davvero molto bello ““ sarei un pazzo a dire il contrario. Il mio parere non conta nulla: di fronte al grande ordine del cosmo e dei Tool, sono una minuscola, insulsa caccolina. E così, mentre sprofondo nello sconforto, mi abbandono al cinguettio glitchato e cacofonico degli uccelli di “Mockingbeat”. Mi lascio travolgere dal vortice psichedelico e, piano piano, ritrovo la pace dei sensi. Il vecchio attrezzo scardina le serrature della mia mente. Il terzo occhio si schiude.

Credit Foto: Travis Shinn