Abbandoniamo la dimensione cosmologica e oggettiva, questa sera il tempo è soggettivo, un intreccio di vissuti che scandiscono un ritmo profondo e pulsante. Il tic-tac degli anni che passano non fa rumore e non serve chiudere gli occhi per sentirsi catapultati in una calda serata di fine estate dei primi Duemila.

Complici e artefici di questo balzo nostalgico da vertigini sono i The Dandy Warhols. La Santeria Toscana 31 è gremita per la prima delle due date italiane della band di Portland, diventati icona del panorama musicale di fine anni Novanta-Duemila con dieci album all’attivo e venticinque anni di carriera.

Sono le 21.55 quando  Courtney Taylor-Taylor  e compagni salgono sul palco, la partenza con “Fever” dall’ultimo album “Why You So Crazy”, pubblicato lo scorso 25 gennaio via Dine Alone Record, serve a scaldare il pubblico. Brano dall’atmosfera notturna e oscura, dieci minuti per la gran parte strumentali che preparano all’esplosione che arriva puntuale sulle note di “Holding Me Up” e “STYGGO”.

Siamo immersi in una nebbia di luci soffuse che virano dal giallo al blu, passando per il rosso. Sul palco non ci sono abbellimenti scenici, sul fondale svetta il nome della band, accanto l’immagine della banana che compariva sull’artwork di “Welcome To The Monkey House”, simbolo e omaggio ai Velvet Underground, gruppo che maggiormente ha influenzato e forgiato l’anima pulsante della band capitanata da Taylor-Taylor.

Con il country elettrico di “Highlife”, brano numero tre dell’ultimo lavoro, si chiude con il presente ed inizia una cavalcata inarrestabile tra i brani che hanno consacrato la band al successo internazionale. “Last Junkie On Earth” e “Good Morning” da “The Dandy Warhols Come Down” del 1997, con “Get Off” e “Mohammed” arriviamo ad una polaroid con data 2000 intitolata “Thirteen Tales From Urban Bohemia”.

Taylor-Taylor  non ha perso un grammo del suo carisma. Non servono molte parole, basta un “Grazie”, un sorriso, un cenno della mano per infiammare il pubblico. La sua voce arriva potente e distorta. La batteria di  Brent DeBoer insiste come un caterpillar gentile, semplice e pulita imprime un ritmo denso che ti impedisce di stare fermo. Zia McCabe, unica donna sul palco, si divide tra tastiere e tamburello, balla, si scatena, sperimenta e si conferma vera leader del gruppo.

Arriva l’attesissima “Bohemian Like You”, i ricordi schizzano a velocità  incontrollabile, il pubblico si scatena, urla e abbracci.

Il gran finale è con “Every Day Should Be A Holiday” e il medley di “Pete International Airport” e “Boys Better”. Chitarre alzate e le tastiere distorte di Zia, è lei l’ultima ad uscire.

Le luci si accendono. Gli encore, per una sera, non hanno importanza.

Una scarica elettrica lunga un’ora e trenta minuti, solo applausi.