Colpevolmente ho ascoltato veramente “Mobile Home” solo 10 anni dopo dalla sua uscita. Nel “’99, quando uscì, nemmeno me ne accorsi, non tutti ne parlarono bene (alcune recensioni furono davvero cattive) ed io ero preso da sonorità  più aggressive. Mi sono reso conto negli anni di quanto il disco fosse effettivamente buono e, anzi, adesso, penso proprio sia (mi sbilancio e so che qualcuno potrebbe storcere il naso) una piccola pietra miliare degli anni “’90, una di quelle perle purissime, snobbate però dai più, schiacciate da band più blasonate e dalle logiche dell’industria musicale.

Chi si aspettava un secondo capitolo del primo album “The Sun Is Often Out” (1996), sonorità  pimpanti, chitarre “facili” e singoloni urlati alla “She Said”, è rimasto deluso. “Mobile Home” è un disco musicalmente sghembo, acido, secco, a tratti freddo, in pieno contrasto con i temi dei testi e la varietà  delle composizioni ma sopratutto in pieno contrasto con un primo album ricco di un guitar-rock e un piglio da stadio che veniva amplificato dagli acuti di Hunt. Per gli amanti della melodie da canticchiare (forse solo “Blue Skies”, primo singolo, è davvero a presa rapida) questo potrebbe essere giudicato come un difetto, per me, invece, lo rende unico e me ne fa apprezzare la bellezza intrinseca. Il gruppo di Sheffield rischia, non si adagia sugli allori ma, in tre anni, si dimostra pronto a giocare carte spiazzanti, tra ballate oscure e decadenti, lievi inserti elettronici, una versatilità  vocale ancora maggiore e variegati arrangiamenti, tutt’altro che banali (da echi bristoliani in “Baby Blue” ad andamenti decisamente ballabili, vedi “Dance Baby Dance”) che guardano a una ricca schiera di influenze e appigli musicali.

Si, perchè ci troviamo sia la maturità  compositiva di Crispin Hunt (che negli anni a venire scriverà  per svariati artisti), sia gli embrioni delle atmosfere che caratterizzeranno la carriera solista di Richard Hawley. Nota dolente la batteria: dopo la defezione di Dee Boyle (il suo rapporto con Hunt era davvero deteriorato fino a prendersi a pugni), il sostituto Andy Cook, a mio parere, non è riuscito ad amalgamarsi a pieno col sound della band, registrando una prova incolore che sa più di turnista, che da membro effettivo.

Col cd nello stereo guardo e riguardo la tracklist nel retro di copertina (tra l’altro il libretto è delizoso con questa carta patinata lucida): mentre scrivo non trovo un pezzo che stoni, certo ci sono momenti meno riusciti di altri e non tutto è a fuoco ma, nel complesso, le 13 canzoni si susseguono con gusto fino alla fine, senza far cadere i Longpigs nella trappola di suonare come un incrocio inutile tra Radiohead e U2.

Una tra le canzoni più riuscite, oltre a “Free Toy” (che sembra uscita dalla penna degli Spain più ispirati), è senz’altro “I Lied I Love You”, ad un tempo, probabilmente, la ballata migliore dei Longpigs e la prova più toccante pubblicata da Crispin Hunt.

P.S.: Ora la ballata più toccante di Hunt è “I Believe In You” dei Gramercy (la sua brevissima sperienza post-Longpigs), ma questa è un’altra storia…

Pubblicazione: 11 ottobre 1999
Genere: Alternative rock
Label: Mother
Produttori: Kevin Bacon e Jonathan Quarmby, Stephen Street

The Frank Sonata ““ 3:53
Blue Skies ““ 4:01
Gangsters ““ 4:56
Free Toy ““ 4:43
Baby Blue ““ 3:56
Dance Baby Dance ““ 4:17
Miss Believer ““ 4:22
I Lied I Love You ““ 4:43
Keep the Light Alight ““ 3:40
Speech Bubble ““ 3:47
Dog Is Dead ““ 4:02
Loud and Clear ““ 3:10
In the Snow ““ 4:30