Autore parco nella produzione discografica (sette album in trent’anni), personaggio che non ha bisogno di presentazioni, senza necessità  alcuna di ricordare chi è, di che “band” faceva part , con chi condivise svolte “elettrizzanti” artistiche importanti ed “ultimi valzer”.
Lo ritroviamo oggi a distanza di otto anni dal suo ultimo disco solista, quel “How to Become Clairvoyant” che fu successo sia di critica che di pubblico e che rinverdì i tempi dell’ esordio solista del 1987, prodotto da Daniel Lanois, divenuto nel tempo un piccolo classico degli anni ’80 meno plasticosi.
Gli ultimi anni comunque lo hanno visto tutt’altro che ai margini della scena musicale, impegnato in un effluvio di collaborazioni e produzioni, in particolare ricordiamo le lavorazioni sulla colonna sonora di “The Irishman” di Martin Scorsese e sul documentario “Once Were Brothers: Robbie Robertson and The Band”.

Il nuovo album si caratterizza, ma non è una novità  nella sua carriera da solista, per la ricercata produzione moderna, in cui ampio spazio viene dato alla contaminazione con un’elettronica assai morbida, in linea con un mood introspettivo se non addirittura dark.
Rispetto al passato però questa ricerca sulla modernizzazione della produzione pare eccessiva, con il rischio di appiattire e spersonalizzare i brani e, nei casi peggiori, con il pericolo di affondarli del tutto. Si rileva, inoltre, un’atmosfera scura e bluesy che però risulta piuttosto monocorde e perde vigore con l’avanzare delle tracce.

A conti fatti tra le mani ci troviamo un ritorno a dir il vero debole, che non viene salvato citando i numerosi featuring disseminati nell’arco della scaletta, a partire dall’intenso soul “errebi” “I hear you paint houses”, impreziosito dalla voce di Van Morrison, e via via ricordando le presenze di Glen Hansard, Derek Trucks e Howie B.
Brani degni di nota sono inoltre il tema portante del documentario sulla The Band, “Once Were Brothers”, non a caso con un arrangiamento più tradizionale rispetto al tono generale del disco, giusto per richiamare le atmosfere care al gruppo e “Walk in beauty way” accompagnata dalla voce di Laura Saterfield.

Purtroppo si arriva con il fiato corto al termine dei quasi 60 minuti di durata, causa l’eccessiva presenza di filler che denotano un calo evidente nell’ispirazione compositiva, dolorosa per un autore, giustamente, celebrato in passato come Robertson e nonostante gli otto anni di attesa.

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