Il terzo episodio post-reunion firmato dai Darkness si intitola “Easter Is Cancelled” e non è privo di sorprese interessanti. Ad accompagnare il sesto album prodotto da una delle band più cazzone mai partorite dal Regno Unito c’è una stupenda copertina kitsch in odore di blasfemia, prontamente censurata in numerosi paesi del mondo per non offendere la sensibilità  delle anime pie. Peccato, perchè l’immagine di un Justin Hawkins/Gesù Cristo super palestrato che spezza le assi del crocifisso descrive meglio di mille parole la natura di un lavoro che, pur non rompendo i ponti con l’ortodossia hard rock, in parte taglia i fili con il passato.

Il desiderio di emanciparsi una volta per tutte da un sound rimasto pressochè immutato dai tempi del successo di “Permission To Land” porta il quartetto britannico a curare con maggior attenzione aspetti che fino a oggi erano rimasti il più delle volte sullo sfondo, messi in ombra dalle chitarre dei fratelli Hawkins e dal perenne falsetto del simpatico frontman. Che qui, come al solito, gigioneggia e stordisce con la sua innaturale estensione vocale; ma riesce pure a stupire, mettendo in mostra un talento da songwriter che precedentemente ci aveva solo fatto intuire.

I Darkness decidono di non sottostare più alla tirannia del riff perfetto per seguire strade diverse, che vanno verso i sopraffini arrangiamenti pop/AOR di “How Can I Lose Your Love”, “Live “‘Til I Die” e “Heart Explodes” e le parentesi folk di “Deck Chair”, “We Are The Guitar Men” e dell’epica “Rock And Roll Deserves To Die”. Quest’ultima, impreziosita da un’introduzione ricca di mandolini e chitarre acustiche, cita con gusto i Led Zeppelin di “Babe I’m Gonna Leave You”.

Non mancano, naturalmente, i consueti richiami ai Thin Lizzy e ai Queen: il fulminante attacco della title track potrebbe benissimo essere farina del sacco di Brian May, mentre le chitarre armonizzate di “In Another Life” non sarebbero affatto dispiaciute alla buonanima di Phil Lynott. Lo scherzoso crossover tra thrash e glam metal alla base di “Heavy Metal Lover” è un po’ troppo dissacrante per poter essere preso sul serio, ma si ascolta che è un piacere; allo stesso modo convince il corposo garage rock di “Choke On It”, l’unica canzone davvero immediata contenuta nel disco. L’assenza di un singolone d’impatto alla “I Believe In A Thing Called Love” o alla “Barbarian” si sente; fortunatamente, però, il livello medio delle composizioni è abbastanza alto da ripianare questo piccolo difettuccio.