Sedici anni dopo gli ultimi segnali di vita, si riaprono i cancelli del Rancho de la Luna. Le Desert Sessions sono ripartite, nonostante fossero rimasti in pochissimi a sperarci ancora. Josh Homme e un nutritissimo gruppo di amici e colleghi hanno lavorato sui volumi undici e dodici della collezione ““ intitolati rispettivamente “Arrivederci Despair” e “Tightwads & Nitwits & Critics & Heels ““ lo scorso dicembre, nell’arco di appena sei giorni.

La velocità  con cui tutto è accaduto ha sicuramente portato benefici alle canzoni, che suonano naturali, spontanee e grezze: caratteristiche fondamentali per il collettivo musicale capeggiato dal frontman dei Queens Of The Stone Age. C’è da dire, tuttavia, che rispetto al passato il risultato finale sembra essere più coeso e ragionato; non frutto quindi di improvvisazioni e jam ad alto tasso lisergico, ma di un processo di produzione in cui nulla (o quasi) è stato lasciato al caso.

Nonostante la tradizionale divisione in due parti distinte, questo è un album da gustarsi tutto di un fiato. La partenza è affidata niente po’ po’ di meno che all’ugola del barbutissimo Billy Gibbons degli ZZ Top che, andatosi a ripassare la lezione synth rock dei tempi del fortunatissimo “Eliminator”, dimostra di essere perfettamente a suo agio sull’ipnotico loop elettronico di “Move Together”. Un brano che evolve con il trascorrere dei minuti, fino a raggiungere acidissime sonorità  stoner.

“Noses In Roses, Forever” segue più o meno lo stesso percorso, tralasciando però qualsiasi elemento digitale. A cantarla c’è lo stesso Homme, che non si sforza più di tanto per evitare confronti con la band madre. Il pezzo, con le sue chitarre in levare e un incedere pesantemente funky, ricorda da vicino “Feet Don’t Fail Me” (da “Villains” del 2017): poco importa, considerando l’ottima qualità  generale. Assai sfizioso il bridge, reso particolarissimo dall’originalità  con cui viene sfruttata la distinzione tra canali audio.

“Far East For The Trees” è una jam strumentale in cui si respira aria di oriente. Homme e Matt Sweeney (Chavez, Zwan) fanno quasi tutto da soli, coadiuvati da Stella Mozgawa delle Warpaint alle tastiere e da una sezione ritmica veramente da sogno: la batterista/percussionista Carla Azar (Autolux, Jack White) e il bassista Les Claypool (Primus), insieme a Gibbons il vero ospite d’onore di queste Desert Sessions.

Le belle atmosfere country/folk di “If You Run” hanno il merito di introdurci alla voce calda e sensuale della sconosciuta Libby Grace; quella di Mike Kerr dei Royal Blood, invece, la conosciamo già  abbastanza bene. La troviamo in “Crucifire”, un siluro garage rock tiratissimo che dura appena un minuto e quarantacinque secondi.

Subito dopo arriva il momento più assurdo del disco: si intitola “Chic Tweetz” e suona come una versione stramba e sbilenca del peggior glam rock anni ’70. Un gustoso divertissement, nato molto probabilmente sulle ali di una serata a base di improvvisazioni, alcol e”…altro, limitiamoci a dire così. A cantare è il misterioso Töà´rnst Hà¼lpft, ovvero Josh Homme camuffato da Chipmunk.

A riportarci con i piedi per terra, per quanto strano possa sembrare, è il frizzantissimo Jake Shears degli Scissor Sisters, protagonista del momento più hipster-psichedelico dell’album: “Something You Can’t See” renderà  felici i fan dei vecchi Tame Impala, ma aggiunge poco o nulla al piatto. Decisamente più saporita, invece, l’ultima portata: “Easier Said Than Done” è una ballad intensa e inusuale, magnificamente interpretata da un Homme in versione crooner. Il suo canto si adagia alla perfezione sulle note del piano elettrico di Kerr e le percussioni “glitchate” di Azar. Una bella chiusura per un lavoro solido e convincente, in grado di trasmettere all’ascoltatore tutto l’amore per la musica coltivato da questo formidabile dream team di artisti.

Credit foto: Andreas Neumann