Guarda le posizioni dalla 50 alla 26 de I MIGLIORI 50 DISCHI DEL 2019

#25)
ANGEL OLSEN

All Mirrors
[Jagjaguwar]
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Ma che bello questo disco di Angel Olsen! E’ stato disco dell’anno fino a fino novembre e vabbè. La sua forma è destrutturata, dove una ritmica synth anni ’80 trascina gli strumenti in un vortice in costante crescendo e la voce della Olsen a volte accarezza ed altre invece graffia.
Ne esce un album delicato e armonico, sospeso nel tempo, perfetto come compagno di viaggio su treni supersonici nelle lande desolate.
Scomponibile.
(Bruno De Rivo)

#24) BETTER OBLIVION COMMUNITY CENTER
Better Oblivion Community Center
[Dead Oceans]
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A Conor Oberst e Phoebe Bridgers devo una doppia manciata di pomeriggi un po’ così raddrizzati da queste belle melodie folk pop. Un misto di eleganza e immediatezza che mi ha conquistato immediatamente. Anche questo è aggrapparsi a due mani alla musica che ascoltiamo.
(Enrico ‘Sachiel’ Amendola’)

#23) BILLIE EILISH
When We All Fall Asleep, Where Do We Go?
[Darkroom/Interscope]
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Debutto di grande vitalità  per l’enfant prodige di Los Angeles che in poco tempo ha convinto tutti, ma proprio tutti. Disco che sembra uscito da una major ma che invece, nella sua grande varietà , nasconde una impronta homemade che segna ancor di più il talento della Eilish. Brani potenti come “Bad Guy” o “You Should See Me in a Crown” si alternano a momenti soffici come “Listen before i go” ed “8”. Ottima la prima.
(Alessandro Tartarino)

#22) KATE TEMPEST
The Book Of Traps And Lessons
[American Recordings/Fiction]
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Il quarto album di Kate Tempest è il ritorno di un’artista unica nel suo genere.”The Book Of Traps And Lessons” (secondo capitolo del racconto iniziato con “Let Them Eat Chaos”) è più vario negli arrangiamenti ma l’intensità  resta la stessa. Va ascoltato fino all’ultimo secondo, perchè riflette il mondo che ci circonda e che spesso scegliamo di non vedere.
(Valentina Natale)

#21) I HATE MY VILLAGE
I Hate My Village
[La Tempesta]
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Il disco è un full immersion in una facoltà  di antropologia culturale: i suoni primitivi e ancestrali che vengono da mondi lontani sono al centro del disco di questa superband composta da Viterbini, Alberto Ferrari e co. Tutto è tarato su sonorità  non comuni ma che riescono ad ispirare in modo unico, alcuni si dimenticano del disco perchè uscito a cavallo tra 2018 e 2019, ma un lavoro del genere rimarrà  una perla, un bagliore unico per anni.
(Gianluigi Marsibilio)

#20) QUERCIA
Di Tutte Le Cose Che Abbiamo Perso E Perderemo
[Autoproduzione]
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Un titolo che è simbolo chiaro di quella che è una riscoperta identitaria per i Quercia che, in questo 2019, hanno tirato fuori un disco di una coerenza, puntualità  e dal fascino assoluto. I loro suoni rudi abbracciano un universo originario, un ursound (suono primordiale) che li rappresenta perfettamente. Disco incredibilmente importante per un genere che in Italia ha un seguito ben definito.
(Gianluigi Marsibilio)

#19) THE NATIONAL
I Am Easy to Find
[4AD]
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Ormai un’istituzione, i National sanno di non avere più nulla da dimostrare e danno spazio alle collaborazioni. Come nel festival “Homecoming” che organizzano ogni anno nella loro Cincinnati, in questo disco lasciano spesso il centro del palco ad altre voci, Lisa Hannigan, Sharon Van Etten, Gail Ann Dorsey. Il risultato è anche stavolta validissimo.
(Francesco Negri)

#18) THESE NEW PURITANS
Inside The Rose
[Infectious]
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La saga dei gemelli Jack e George Barnett si arricchisce di un ulteriore pregevole tassello, che ne rafforza una posizione preminente in un genere di difficile collocamento ma che trova le sue radici in un’estetica post-punk e dark-wave. Ma le etichette sembrano stare veramente strette ai These New Puritans che con questo album – giunto a ben sei anni dal capolavoro precedente – dimostrano di saper mediare al meglio le tante istanze che muovono i loro animi inquieti. La parola d’ordine è: intensità !
(Gianni Gardon)

#17) TYLER, THE CREATOR
IGOR
[Columbia Records]

Se con Kanye c’era il dubbio della follia, con Tyler, The Creator se ne ha la certezza. L’hip hop è al centro dell’attenzione, sperimenta e prende spunto da qualsiasi cosa, trovando nel rapper californiano uno dei massimi esponenti della forza performativa alla quale può ambire questo genere, e lui è pronto, per qualsiasi cosa.
(Massimiliano Barulli)

#16) VAMPIRE WEEKEND
Father Of The Bride
[Sony]
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I Vampire Weekend cantano in “Father of The Bride un’umanità  che vive in un pianeta malato, il disco è però un’occasione per sovvertire una narrazione catastrofista e anzi in tutto il lavoro si eleva, tramite una serie di melodie pop perfettamente pensate da Ezra Koening e compagni, un alone di incredibile positività . I Vampire Weekend danno il massimo in brani come “Married In a Gold Rush” o “Jerusalem, New York, Berlin”, che attraverso un dialogo tra vari accordi di pianoforte tracciano una linea che lega storie, epoche e idee, non solo in ambito musicale, ma politico, sociale. La chiave del disco è nel racconto di un’umanità  che, sull’orlo di una catastrofe umanitaria e ambientale, trova le giuste coordinate per ritrovarsi, rinascere.
(Gianluigi Marsibilio)

#15) THE TWILIGHT SAD
It Won/t Be Like This All The Time
[Rock Action Records]
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The Twilight Sad tornano dopo quattro anni da “Nobody Wants To Be Here And Nobody Wants To Leave”, che aveva dato loro parecchie soddisfazioni e consensi, e con “It Won/t Be Like This All The Time” riescono a fare quello che capita solo alle grandi band, realizzare un nuovo notevole album, che mantiene le loro caratteristiche ma che allo stesso tempo   offre un evoluzione del loro sound, più immediato e con una formidabile combinazione di chitarra, tastiere synth e melodia capace di catturare ed affascinare.
(Fabrizio Siliquini)

#14) CHELSEA WOLFE
Birth Of Violence
[Sargent House]
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I semi del male

Ritorno al dark-folk per l’autrice californiana.
(Luca Morello)

#13) AMERICAN FOOTBALL
American Football (LP3)
[Polyvinyl Records]
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Con gli American Football il piacere, ormai, è quello di essersi ritrovati.
(Anban)

#12) THE MURDER CAPITAL
When I Have Fears
[Human Season]
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Nella cosiddetta “scena di Dublino”, il post-punk dei Fontaines D.C. ha raccolto consensi pressochè unanimi, mentre i Murder Capital ne hanno presentato una versione più volubile, lacerata e melodica, politica e privata, disperata e catartica. I brani più tirati si inseriscono pienamente nel filone della rinascita punk, ma il loro merito più grande è saper spesso e volentieri rallentare i ritmi, come nella stupenda “On Twisted Ground”.
(Francesco Negri)

#11) BIG THIEF
U.F.O.F.
[4AD]
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In vetta alla mia classifica si piazzano i newyorchesi Big Thief, che di album in album mi confermano la bontà  della loro opera, le loro straordinarie qualità , in particolare quelle della leader Adrianne Lenker, una delle migliori frontwomen del nuovo millennio. E’ lei a tessere le trame del quartetto, a dipingere pregevoli acquerelli, decantare immaginifiche storie e a guidare la macchina verso territori folk pop che possono sconfinare talvolta in una tenue elettronica come concretizzare magnificamente atmosfere dreamy. Versatili e prolifici, i Big Thief dal 2016 ad oggi hanno pubblicato ben 4 album (senza contare la prova solista della Lenker un anno fa) e solo nel 2019, a distanza di pochi mesi da “U.F.O.F.” hanno replicato con “Two Hands”, che ha mostrato un’altra faccia della medaglia, più diretta forse ma altrettanto affascinante. Più che un toccare il ferro finchè è caldo, però, sembra proprio che i Nostri vogliano “approfittare” di questo stato di grazia che si è come impossessato di loro. L’ispirazione continua a volare alta. E’ un album questo che mi è entrato sotto pelle, che ha marchiato a fuoco un anno denso di uscite interessanti, anche fra i nomi nuovi e che mi indusse (perdonate la parentesi personale) a scrivere una contro-recensione qui sul sito, perchè quel 6,5, pur motivato, mi suonava proprio come un’ingiustizia…
(Gianni Gardon)

#10) FKA TWIGS
Magdalene
[Young Turks]
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Le storie d’amore raccontate da Tahliah Debrett Barnett sono peccaminose ma molto molto umane. Le incontriamo distese su un tappeto di suoni intensi e cupi che reinventano l’ R&B e il pop contaminandoli con ritmi hip hop e trip hop in un disco che cambia di continuo, rendendo l’ascolto avventuroso e stimolante.
(Valentina Natale)

#9) MASSIMO VOLUME
Il Nuotatore
[42 Records]
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Finiamo per perderci tra le onde; rinunciamo a ciò che siamo; a ciò che possediamo; persino a chi abbiamo amato e che ha ricambiato il nostro amore, semplicemente perchè sarebbe difficile e complicato sopportarne il peso e la grandezza. Meglio vivere un perenne inverno, meglio coprire tutto sotto uno strato di foglie morte, meglio accontentarsi delle rovine di una casa distrutta, meglio convincerci che non sia stata colpa nostra. Ed allora prendiamocela con il destino, con il fato avverso, con quella dispettosa Signora del Caso.
(Mik Brigante Sanseverino)

#8) BRUCE SPRINGSTEEN
Western Stars
[Columbia]
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Sorprendente nella scelta interpretativa e di suoni, fulgido nella sua ritrovata ispirazione.
(Corrado Frasca)

#7) BIG THIEF
Two Hands
[4AD]
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La band esce con due album nello stesso anno uno meglio dell’altro, ero tentato di inserirli ambedue in classifica poi ho pensato di inserire solo il secondo in ordine di uscita, scegliendolo solo perchè non me lo aspettavo così sorprendente dopo l’uscita del fantastico “U.F.O.F.”. C’è una sottile linea intima che pervade tutti brani, che crea tramite la figura di Adrienne e il suo modo di cantare così particolare, una dimensione che affascina, “Not” non riesco più a toglierlo dalla testa.
(Fabrizio Siliquini)

#6) SAM FENDER
Hypersonic Missiles
[Polydor Records]
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I suoi riferimenti sono chiari e lampanti: gli anni ’80 sferraglianti a stelle e strisce, lo Springsteen più epico, un tocco di Tom Petty ma anche la varietà  di un gruppo moderno come War On Drugs. Paragoni importanti, certo, ma Sam ha le spalle larghe e un songwriting capace di sostenere il tutto, sia che si lanci in cavalcate trascinanti sia che si faccia più notturno e crepuscolare.
(Riccardo Cavrioli)

#5) NICK CAVE AND THE BAD SEEDS
Ghosteen
[Bad Seed Ltd]
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Qui non è più una questione di immediatezza, tornano le strade più tortuose e le atmosfere solenni. Un lavoro di pietra lavica e di una bellezza urticante e dolorosa. Nick Cave è uno dei pochi a rappresentare l’eccezione in ogni momento.
(Enrico ‘Sachiel’ Amendola)

#4) THOM YORKE
Anima
[XL Recordings]
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Sonorità  avvolgenti, da lasciare senza fiato. Thom ama stupire e lo fa alla sua maniera, regalandoci ogni volta momenti intrisi di spettacolarità . Nove brani indimenticabili, a partire dai backbeat di “Traffic” ai synth ipnotici di “Twist”, passando dall’inquietudine di “Dawn Chorus” fino alla perfezione nel mood di “Impossible knots”. Grazie, come sempre, Thom.
(Alessandro Tartarino)

#3) BON IVER
i,i
[Jagjaguwar]
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Continua il percorso di introspezione, sperimentazione e spazialità  di Justin Vernon con i suoi Bon Iver. “i,i” con la sua ampiezza sonora copre una vastità  emozionale difficilmente riscontrabile in altri artisti. Da “iMi” a “Hey, Ma” passando per “Naeem” e “Marion”, la band conferma quanto di buono fatto nei lavori precedenti. Se per molti è difficile accettare un post “Bon Iver”, è indiscutibile ammettere come i  Bon Iver  siano un passo avanti a tutti.
(Massimiliano Barulli)

La fuga da sè, per ritrovare sè
La continuazione dell’evoluzione “decostruita” di Justin Vernon e soci.
(Luca Morello)

Si parla di anni ’10 e nello storytelling musicale del decennio Justin Vernon è mattatore assoluto. Bon Iver è capace di rivoluzionarsi ogni disco, Justin si è affermato come vero creatore di giungle sonore e testuali. “I,I” è un disco in cui tutti gli elementi del passato si ricompongono in un collage che disegna un’opera d’arte vera, profonda.
(Gianluigi Marsibilio)


#2) DIIV
Deceiver
[Captured Tracks]
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Zachary Cole Smith pare si sia finalmente lasciato alle spalle i problemi con le dipendenze, la dura riabilitazione ha senz’altro lasciato il segno, ovunque incombono chitarre grezze che elevano “Deceiver” a album sensazionale.
(Daniel Cardarelli)

A tre anni da “Is the Is Are” i DIIV piantano la bandiera di paladino di uno shoegaze contaminato dall’alternative rock. Zachary Cole Smith conferma le doti compositive e, tra droghe e disintossicazione, rimarca le sonorità  lisergiche e ipnotiche che lo hanno sempre contraddistinto.
(Massimiliano Barulli)

Il gruppo di Zachary Cole Smith rischia di essere diventato il miglior gruppo guitar-based in circolazione, senza averci neanche davvero provato. Giunti al terzo lavoro, la loro formula in equilibrio tra shoegaze e post-punk si scurisce, alterna voci eteree e melodie oblique a esplosioni post-metal, e suona irresistibile come non mai.ù
(Francesco Negri)

#1) FONTAINES D.C.
Dogrel
[Partisan Records]
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Dublin in the rain is mine / a pregnant city with a catholic mind. Si apre così l’album di questa band post punk irlandese, e subito si instaura simpatia ed empatia. Non si sono inventati nulla di che, il classico sound minimale e veloce, che abbiamo già  sentito migliaia di volte. Ma le sfumature attorno a questi suoni scarni, la freschezza dei testi, la malinconia delle atmosfere piovose dell’isola di San Patrizio ce li fanno apprezzare come aver aperto una finestra per far uscire l’aria viziata. Fresco.
(Bruno De Rivo)

Cosa si può ancora dire sui Fontaines DC? Il loro sound che per semplificare definiamo post punk ha molti lati da esplorare, ci sono le idee, c’e’ l’urgenza giovanile e ci sono i semi per trasformarsi in quello che vogliono, come dimostrano in brani come “Dublin City Sky”. Per quanto mi riguarda per ora sono una bellissima crisalide.
(Fabrizio Siliquini)

“Dogrel” dei dublinesi Fontaines D.C. è uno degli esordi più interessanti dell’anno per la sua capacità  di fondere l’istinto del rock e del post punk con l’anima irlandese. La voglia di suonare e di crederci del quintetto è contagiosa. Non sono retrò ma autentici, grintosi, divertenti mantengono le promesse in un debutto coinvolgente.
(Valentina Natale)

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