#10) APPARAT
LP5
[Mute Records]
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Raramente Sascha Ring in arte Apparat delude. Tornato nel suo environment originale, l’artista berlinese ci regala un’altra perla alla sua collezione discografica: un album di avvolgente elettronica che ammicca ad Aphex Twin con quelle ritmiche in 4/4, ricca di inserti strumentali e vocali sofisticati che ci fanno viaggiare nel tempo e nello spazio, pur rimanendo nello stesso punto di partenza. Ascoltandolo in cuffia si apprezza il sontuoso lavoro di produzione, con suoni che rimbalzano come impazziti da destra a sinistra.
Fuorviante.

#9) LIAM GALLAGHER
Why Me? Why Not
[Warner]
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Il bizzoso dei fratelli Gallagher prima annuncia, provocatoriamente, il miglior album della storia del rock poi pubblica un album che gli amanti del british pop non potranno che apprezzare. Se si superano i molti clichè accarezzati da LG, alla fine si apprezza questo album per la sua leggerezza e simpatia, con quelle note di Beatles, Oasis prima maniera, John Lennon, e affini. Con tanto di archi e orchestre di sottofondo.
Convincente.

#8) CAGE THE ELEPHANT
Social Cues
[RCA]
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La band del Kentucky pubblica un quinto album convincente, inserendosi in una comfort zone fatta di sonorità  tipo Arctic Monkeys, Strokes, Killers. Un sound quasi low-fi, ritmato, che alla fine ti rimane in testa e ti ssorprendi a canticchiare le canzoni anche a distanza di tempo.
Penetrante.

#7) RIDE
This Is Not A Safe Place
[Wichita]
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I Ride riscrivono la loro storia. Che piaccia o no il quartetto di Oxford reinterpreta se stesso proiettano il loro sound iconico nel futuro. Con questo album ripartono addirittura da “Nowhere”, la stessa copertina con il mare, per poi esplorare orizzonti diversi, paralleli, senza incaponirsi su quello shoegaze che non tornerà  mai più. Non avendo più nulla da dimostrare, danno però una notevole prova di forza.
Coraggioso.

#6) IGGY POP
Free
[Caroline International]
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Quando pensi che ormai non abbia più niente da dire e nostalgicamente ascolti il podcast “Iggy Confidential” per ammirarne gli accostamenti e le fonti di ispirazione ecco che Iggy Pop sfodera un album che ti spiazza. Ma che cos’è? Jazz, alt-rock, folk-pop, o che altro? Si fatica persino a classificare il disco del nostro Higuana preferito. La poliedricità  spinta all’estremo finisce per lasciare spiazzati e inizialmente si fatica a comprendere l’opera di James Osterberg, che poi però ci cattura.
Sorprendente.

#5) The CHEMICAL BROTHERS
No Geography
[Virgin EMI]
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Colpo di coda? Canto del cigno? O solo intuito? L’ultima fatica dei fratelli chimici riesce in ogni caso a colpire, con quel senso di vintage e retrò che scomoda addirittura gli esordi di Exit Planet Dust. L’elettronica torna minimalista, le atmosfere funky, groove, le voci robotiche che sanno di eighties, al limite dell’acid house! Ma come si permettono?
Forse proprio il farci assaporare quell’atmosfera di 25 anni fa induce noi attempati dj a far salire il gradimento verso l’album oltre i meriti dello stesso. Ma, si sa, l’amore per la musica non è controllabile e con i Chemicals è facile andare “Out Of Control”
Sfacciato.

#4) FONTAINES D.C.
Dogrel
[Partisan Records]
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Dublin in the rain is mine / a pregnant city with a catholic mind. Si apre così l’album di questa band post punk irlandese, e subito si instaura simpatia ed empatia. Non si sono inventati nulla di che, il classico sound minimale e veloce, che abbiamo già  sentito migliaia di volte. Ma le sfumature attorno a questi suoni scarni, la freschezza dei testi, la malinconia delle atmosfere piovose dell’isola di San Patrizio ce li fanno apprezzare come aver aperto una finestra per far uscire l’aria viziata. Fresco.

#3) THE WONDER STUFF
Better Being Lucky
[Good Deeds Music]

Credo di essere una delle pochissime persone in Italia che conosce ed apprezza i Wonder Stuff. La band di Miles Hunt è tornata in questo 2019 con un album in grande stile, un bel triplo vinile colorato denso di quel folk-rock e liriche taglienti che li ha resi celebri tra i sudditi di sua maestà . Come riesca a conquistarmi un sound così ricco, pomposo, con armoniche, violini e strumentazioni varie non me lo so spiegare. Ma alla fine diventano un tormentone, come la lingua che torna sempre sul dente rotto, ancora e ancora.
Ossessionabile

#2)
ANGEL OLSEN

All Mirrors
[Jagjaguwar]
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Ma che bello questo disco di Angel Olsen! E’ stato disco dell’anno fino a fino novembre e vabbè. La sua forma è destrutturata, dove una ritmica synth anni ’80 trascina gli strumenti in un vortice in costante crescendo e la voce della Olsen a volte accarezza ed altre invece graffia.
Ne esce un album delicato e armonico, sospeso nel tempo, perfetto come compagno di viaggio su treni supersonici nelle lande desolate.
Scomponibile.

#1) BECK
Hyperspace
[Capitol]
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Se si ascolta questo album di Beck una sola volta si rimane delusi. Ma cos’è questa pagliacciata di ispirarsi a tutti i dischi di Beck e mettere tutto in un pentolone? Perchè poi invitare tutte queste guest stars? Perchè infine farlo così pop, vendiamo l’anima al botteghino?
Poi però ad ogni giro, togliendo gli strati superficiali, si inizia ad intravvedere il disegno del genietto californiano, quello di ripercorrere la propria carriera attraverso le molteplici sonorità , dal dadaismo di “Mellow Gold” al folk pop di “Sea Change”, dall’alt-rock di “Guero” all’electro-pop di Colors. Magari limando gli spigoli che hanno reso la musica di Beck in passato non proprio per tutti i palati e non sempre digeribile.
Potrebbe sembrare una sorta di commiato dalle scene e direi che sarebbe perfetto se lo fosse.
Terminale.