Una lampada, un frigorifero ed un aspira-polvere furono questi gli oggetti ritratti sulla copertina dell’avvincente esordio discografico dei Cure: “Three Imaginary Boys”.

Oggetti freddi ed impersonali. Oggetti inanimati e banali. Oggetti appartenenti alla nostra scarna e scheletrica quotidianità .

La sfiducia e la frustrazione del punk, il pessimismo di Ian Curtis, i dubbi e lo sconforto di Robert Smith si mescolano e trasformano in quella foschia dolente che avvolge il mondo dei Cure, in bilico tra post-punk e new wave, mentre le loro ritmiche nevrotiche ed introverse diventano l’unica tenue e fragile luce in grado di penetrare nella spessa nebbia delle nostre disilluse ed omologanti periferie di cemento. Luoghi nei quali siamo costretti a nascondere i nostri veri sentimenti dietro finti sorrisi e le nostre lacrime tra le menzogne e le falsità  che noi stessi pronunciamo, altrimenti saremmo visti troppo “male”, perchè, è risaputo, i ragazzi non debbono piangere. Mai (“Boys Don’t Cry”).

Ed è più importante conformarsi a questa regola ed esser considerati “normali”, piuttosto che rischiare di perdere le persone a cui teniamo davvero, semplicemente perchè non possiamo ammettere le nostre sofferenze, non possiamo accettare le più dolorose verità , non possiamo chiedere scusa. Mai.

Meglio rifugiarsi nella malinconica nostalgia dei nostri Sabato sera (“10.15 Saturday Night”), nei rubinetti che gocciolano tristemente, in attesa che il telefono provi a squillare, mentre la luce della decadenza urbana striscia, da sotto la porta, nel nostro piccolo, vuoto ed insignificante mondo; un mondo finto e fallace, fatto di sogghigni, di dita tese ad indicare qualcuno che appare diverso, di sensi di colpa e di occhi che fissano, con ferocia, i nostri passi insicuri (“Plastic Passion”).

Non dimentichiamo che “Boys Don’t Cry”, in realtà , non fu un vero e proprio album, ma il debutto/repackaging di quello che era stato il vero primo album dei Cure, “Three Imaginary Boys”, in America. La band decise di includere tre singoli di successo (“Boys Don’t Cry”, “Killing An Arab” e “Jumping Someone Else’s Train”) ed omettere, invece, alcune canzoni, con il risultato finale di apparire meno distaccata ed impersonare, in modo più efficace e diretto, quell’epoca di maturazione e trasformazione nella quale il fuoco vorace e la devastazione punk si stavano dilatando e diluendo in atmosfere e panorami remoti, misteriosi ed oscuri dei quali i Cure furono tra i più efficaci cantori. Cantori di echi remoti ed ombre inquietanti; cantori delle scale che ci appaiono davanti, ogni qual volta chiudiamo gli occhi, e che conducono nei meandri più nascosti ed angosciosi della nostra stessa mente, quelli nei quali la luce muta, il tempo ed i ricordi si incrinano, la realtà  si distorce ed i sogni assumono consistenza e premono, con forza, i loro sussurri nel silenzio doloroso dei nostri respiri (“Three Imaginary Boys”).

Pubblicazione: 5 febbraio 1980
Durata: 34:09
Dischi: 1
Tracce: 13
Genere: Post-punk
Etichetta: Fiction
Produttore: Chris Parry
Registrazione: 1978-1979

1 – Boys Don’t Cry ““ 2:37
2 – Plastic Passion ““ 2:15
3 – 10.15 Saturday Night ““ 3:40
4 – Accuracy ““ 2:16
5 – Object ““ 3:03
6 – Jumping Someone Else’s Train ““ 2:58
7 – Subway Song ““ 1:54
8 – Killing An Arab ““ 2:22
9 – Fire In Cairo ““ 3:21
10 – Another Day ““ 3:43
11 – Grinding Halt ““ 2:49
12 – World War ““ 2:36
13 – Three Imaginary Boys ““ 3:14