Celebrare lo stile di vita di chi se ne fotte altamente di tutto e tutti. Il comunicato stampa che accompagna l’uscita di “Father Of All”…” (o “Father Of All Motherfuckers”, se siete allergici alle censure) è esplicito: in queste poche parole si nasconde, nel bene e nel male, il succo del messaggio del tredicesimo album dei Green Day. Appena ventisei minuti di godibile garage rock all’acqua di rose che, a costo di passare per maligno, credo si possano considerare una sorta di dito medio rivolto alla Reprise, la major che per quasi trent’anni è stata la casa del trio californiano.

Billie Joe Armstrong, Mike Dirnt e Trè Cool salutano la loro vecchia label con un lavoro che sa tanto di gradevole compitino, con quel briciolo di spregiudicatezza artistica che farà  urlare allo scandalo sia gli ormai attempati superstiti dei fasti di “Dookie”, sia i più giovani amanti dello sfarzoso pop punk alla base di “American Idiot”. Soprattutto questi ultimi dovrebbero sentirsi in qualche modo oltraggiati, considerando il fatto che la copertina di “Father Of All”…” non è nient’altro che una versione vandalizzata di quella del best seller datato 2004.

Che i Green Day abbiano maturato un odio viscerale per il disco che li salvò dall’oblio dopo il mezzo flop di “Warning”? è assai improbabile. Più verosimilmente, “Father Of All”…” è stato concepito con il proposito di infondere nuova linfa vitale nei poco palpitanti cuori di tre rockstar che, alla soglia dei cinquant’anni di età , non hanno più molto da dire. Le differenze rispetto al recente “Revolution Radio” sono evidenti: non ci sono ballate, non ci sono scivoloni ultra-pop alla “Still Breathing” e non c’è la benchè minima ombra di impegno politico nei testi.

è il trionfo di un garage rock blando ma molto orecchiabile, ricco di contaminazioni vintage (il soul della Motown, il glam, il rock and roll, il punk ramonesiano”…) ma davvero poverissimo sul versante dell’originalità . Qualche esempio? La title track e “Fire, Ready, Aim” hanno un bel tiro, oltre a interessanti inserti di organo e piano; Billie Joe Armstrong prova a stupirci con un inconsueto falsetto, ma non riesce a risollevare le sorti di   due tracce che, a esser generosi, potrebbero essere scarti degli Hives di una quindicina di anni fa.

Molto male il terzo singolo, l’inconsistente “Oh Yeah!”, che si fa notare quasi esclusivamente per il campionamento di un vecchio brano di Joan Jett nel ritornello. Come se non bastasse, la canzone usata come sample è a sua volta una cover (il rifacimento di “Do You Wanna Touch Me (Oh Yeah)” di Gary Glitter). Tra battimani, cori gospel e piacevoli melodie “’60s, “Meet Me On The Roof” e la clashiana “Graffitia” scivolano via che è una meraviglia; così come fa la coinvolgente “Stab You In The Heart”, omaggio ai padri nobili del rock and roll (Little Richard e Chuck Berry in primis).

La mano del produttore Butch Walker smussa gli angoli e rende il tutto più digeribile al giovane pubblico ma, come suo solito, esagera con la compressione: l’artificiosa patina radio-friendly di “Junkies On A High” e “Take The Money And Crawl” indebolisce in maniera considerevole la buona prova dei Green Day, alle prese con un inedito blues rock di stampo settantiano. Alla fine della giostra, i migliori episodi di “Father Of All”…” sono quelli più tradizionalmente pop punk: l’esplosiva “Sugar Youth”, con un riff degno di Danko Jones, conquista al primo ascolto; l’ottima “I Was A Teenage Teenager”, lunga quasi quattro minuti, ha il refrain giusto per l’heavy rotation.

Se fosse uscita come singolo al posto della mediocre “Oh Yeah!”, probabilmente l’album sarebbe stato recepito diversamente dai titubanti fan. Sicuramente è un’opera controversa, ma godetevela per quella che è: una raccolta di canzonette più o meno carine. Che male c’è a fottersene delle aspettative, quando non si deve dimostrare più nulla?

Credit foto: Pamela Littky