Con il primo, ottimo, album “Clean”, Sophie Allison dimostrava di essere un fiore sbocciato e meritevole di attenzione. Un fiore fragile, puro e incantevole. Un fiore che dimostrava di aver sofferto e “combattuto” per stagliarsi fra tanti.

In questo nuovo disco la nostra fanciulla va oltre la patina lo-fi che si respirava nell’esordio, complice anche il lavoro in studio, con una vera band alle spalle e con più tempo (e soldi) a disposizione (Gabe Vax anche questa volta è alla produzione e fa sempre il suo ottimo lavoro). Si sente bene. La fanciulla è cresciuta, anagraficamente e in qualità  musicale.

Quel fiore che ci aveva incantato, ora, non è più lo stesso: se lo guardiamo bene ci appare più grande, più vivido, capace di imprimersi ancora di più nel nostro sguardo, ora ci dimostra di avere radici maggiormente forti, con più storie da raccontare nel suo animo, nel suo interno e tutto questo gli ha trasmesso una varietà  di colori e di sfumature che in “Clean” non c’erano. Meno fragile direte voi? No, quella caratteristica è rimasta, ed è il suo marchio di fabbrica. Proprio i colori di cui dicevamo si fanno elemento caratterizzante del percorso empatico e musicale che Sophie trasmette e chiede, empaticamente, all’ascoltatore di percepire. Blu, giallo, grigio come cartine tornasole di sensazioni, stati d’animo, emozioni ed emotività . Lo sguardo è rivolto al (difficile) passato, ma non aspettatevi quadretti adolescenziali o da Diario Smemoranda, Sophie scava in profondita, si espone e risulta limpida e chiara nella sua esposizione. Non le manca il coraggio, non le manca la volontà  e l’incisività  per raccontare pezzi (tristi) della sua vita con una lucidità  impressionante. Guardarsi dentro e buttare fuori, in modo credibile e adulto. Bravissima. Anche quando ammette di aver bisogno d’aiuto. Tutt’altro che facile.

L’impianto musicale che supporta le sue parole è caldo, coinvolgente, melodico e cangiante. L’approccio è stato quello di suonare i brani live in studio e successivamente farci un piccolo lavoro di post-produzione: tutto risulta vivo, passionale, anche toccante. Melodicamente parlando siamo su livelli eccellenti: pop-rock che cattura la nostra attenzione, mai banalotto e mai pateticamente radiofonico. Dai toni più morbidi dei primi 4 brani (orientati alla depressione), al gusto più rock di “Crawling In My Skin”, scivolando poi nella popedelia magistrale dell’incantevole “Yellow Is The Colour Of Her Eyes” (il brano migliore dell’intero album, insieme alla sublime “Bloodstream”) per tracciare il colore giallo, quello della malattia. La parte finale, il colore grigio che parla del buio e della morte, ritrova anche qualche coordinata più lo-fi (“Stain”) e spartana, come se combattere con la paura della morte meritasse più raccoglimento e pacatezza, anche se “Lucy” trova comunque un andamento magnificamente ondivago e straniante. Si leggono accostamenti con moderne band indie-rock per la nostra Sophie, che, in realtà , paga un sano tributo a quelle fanciulle del rock mainstream che hanno segnato la sua crescita, da Alanis Morrisette ad Avril Lavigne, tanto per citare due big. Sophie le fa sue e le elabora con il suo tocco pop personale, non più da cameretta certo, ma con uno sguardo e un gusto musicale più maturo rispetto all’esordio, capace di superare l’adolescenza per entrare nel mondo dei giovani adulti.

Se “Clean” Meritava, per il sottoscritto, un 7,5, con questo “Color Theory” siamo tranquillamente all’8.