di Elena Castagnoli

Sono tempi difficili, amplificati da un virus che attanaglia il mondo, costringe alle mura domestiche e a circondarsi della bellezza e degli affetti che abbiamo vicini a noi.
Oppure no.
Ho quarant’anni suonati e da venti seguo i Pearl Jam in giro per il mondo come posso. E”‘ una passione nata nella cameretta ai tempi di “Versus”, molto più che con “Ten” e condivisa con gli amici in carne ed ossa, con quelli incontrati ai concerti, con la prima fanzine (penso a Madreperla e a Valeria che la curava con precisione e passione). Un senso di comunità  vero, tangibile, quello che è anche difficile da spiegare per chi non lo percepisce come importante.

Il decimo identico concerto dello stesso tour, i chilometri macinati senza dormire, le code infinite, il sudore,
l’attesa e la musica che ripaga sempre gli sforzi. In quel tempo che sembra non scorrere mai e che separa dall’uscita on stage di Vedder e soci c’è la vita che pulsa: riconoscere le stesse facce in prima fila, scambiarsi opinioni, parlare di musica ma anche di sogni, di obiettivi.
Dieci anni fa curavo un programma in radio, era il mio modo per trasmettere questo tipo di passione, un approccio quasi epidermico con la musica, perchè è la condivisione che la rende ancora più speciale. Questa lunga ed emotiva premessa per evidenziare quanto le cose siano cambiate nell’era della web community. Internet dei primi anni duemila sembrava il Sacro Graal per chi avesse una passione da mettere in comune: finalmente tutte le informazioni, approfondite, facili da reperire, i blog, i myspace. C’è poi stata l’esplosione di YouTube e dei video dei concerti, emozioni da rivedere anche a casa, sembrava meraviglioso.

Un paese dei balocchi, che come nel romanzo di Collodi, si trasforma presto in una gabbia.
Negli ultimi anni ho visto un fiorire continuo di tuttologi, produttori, grandi esperti con imprescindibili opinioni da doveresprimere ad ogni costo, anche sulle pagine dedicate ai Pearl Jam.
Ieri è uscito “Gigaton”, nuovo album della band di Seattle ed è stato uno tsunami di critiche, di odio, di frustrazioni condivise senza limiti. Si tratta di un lavoro onesto, senza grandi velleità  di cambiare la storia
della musica, comunque superiore ai due album precedenti, che ha qualche brano di spessore e molti altri
meno. Questi sono i fatti realmente accaduti.
La realtà  virtuale invece ci presenta un panorama piuttosto tetro di fan, o presunti tali. che gettano veleno,
condividono le riflessioni del redivivo youtuber Silvestrin che stronca il disco, mettono a disagio chi cerca di ritrovare le emozioni di cui sopra.

Ieri ho cancellato la mia adesione al gruppo facebook Pearl Jam Italia dopo tanti anni, soffocata da questa
sensazione di vuoto, pensando che quando usciva un album dei Pearl Jam lo passavo nella cameretta e lo ascoltavo cento volte di seguito prima di avere un’opinione così importante da poter essere espressa. Sono tempi difficili quelli del Coronavirus, mettono alle strette, ma mettono anche nelle condizioni di poter avere del tempo per pensare a cosa sia stato importante nelle nostre vite e a quanto tutelarlo.

Ho scritto questo pezzo per rivendicare la potenza e la bellezza dell’esperienza della musica. Vedder mi ha accompagnata dall’adolescenza all’età  adulta, attraverso le sue cover ho scoperto gli Who, Cat Stevens, Vanessa Williams e Tom Waits. Mi ha aiutato ad aprire porte sulle infinite meraviglie che avrei trovato negli anni sessanta, settanta e ottanta ed utilizzare le canzoni come ponte per i miei stati d’animo, le mie crisi e le mie rinascite.
Passeranno mesi prima di un prossimo concerto, soprattutto monumentale come quello dei Pearl Jam, ma sarà  comunque importante esserci perchè oggi “‘”‘I’m still alive” è una dichiarazione di intenti, è la fiducia in un mondo che sopravviverà  al COVID-19 e anche alle web community, ai pareri non richiesti, alle risse da
tastiera.

E”‘ un disco nero, fatelo girare sul piatto, accendete l”‘amplificatore e spegnete il computer.