Il nome di Hilary Woods a queste latitudini potrebbe non dire granchè, ma immagino che (almeno) gli appassionati di britpop e dintorni non abbiano dimenticato la magnetica biondina che imbracciava il basso nei JJ72, band irlandese emersa alla fine degli anni ’90 e che ebbe un successo effimero ma ugualmente ragguardevole in ambito indie.

Per quanto il fulcro creativo e autentico leader del gruppo fosse il minuto Mark Greaney, è altrettanto vero che la Woods non passasse inosservata e fosse anzi assai funzionale al progetto: una vera e propria gioventù sonica quella del trio (completato dal batterista Fergal Matthews).

La sbornia durò ben poco però, se è vero che a un convincente debut – album ne seguì solo un altro in cui l’ispirazione pareva già  in fase calante, così come repentinamente diminuì pure la loro popolarità .

Tuttavia, se un gruppo mi piace, tendo a tenere d’occhio i miei “polli” e, se di quel giovanissimo e funambolico cantante-chitarrista si persero presto le tracce, fu proprio Hilary (all’epoca appena uscita dal college) a dare seguito a quell’esperienza e ad avviare una interessante carriera solista, seppur lontana da clamori e riviste patinate.

Ecco, dopo questa premessa, e dopo avervi fatto ricordare quella dolce biondina, beh… dimenticatela, perchè la solista che da poco ha pubblicato il suo secondo album sembra un’altra persona rispetto a 20 anni fa.

Il cambiamento riguarda tutti gli aspetti, non soltanto (vedremo) quelli prettamente musicali, in quanto la Woods per tanto tempo aveva del tutto abbandonato la sua vocazione artistica, dedicandosi a tutt’altro, in primis al ruolo genitoriale, essendo diventata madre di una bimba quando aveva solo 23 anni.

Il tempo trascorso lontano dalla musica l’ha vista trasformarsi come donna, alle prese con varie vicissitudini che hanno finito poi inevitabilmente per condizionarne scelte e percorsi di vita.

Si è trattato per lei di un momento di crisi personale che, una volta passati i demoni, è riuscita a condensare in un album d’esordio davvero notevole per rimandi e suggestioni: “Colt” fu pubblicato solo nel 2018 ma la sua lavorazione era iniziata tempo prima, seguendo ritmi poco prestabiliti, a seconda del periodo in cui le canzoni prendevano una forma via via più definita.

Brani dal respiro noir, cinematografico, denso com’era di atmosfere lynchiane (due esempi su tutti: “Inhaler” e “Prodigal Dog”); di pari passo anche il suo look era drasticamente cambiato, e dell’immagine dolce e angelica rimase ben poco, sostituita ora da una presenza altrettanto fascinosa ma decisamente più dark.

Un disco a suo modo sorprendente, dove mancava qualsiasi tipo di ammiccamento al pubblico, e che venne percepito ai più quasi come una seduta di autopsicanalisi, necessaria quanto doverosa.

Da lì in poi l’artista dublinese ha infatti ripreso vigore e forza d’animo, soprattutto ha acquisito serenità  e maggior consapevolezza della potenza espressiva che ancora la musica può regalare nei momenti cruciali della vita. Poco dopo la pubblicazione del suo primo album, si ritrovò però ad affrontare una nuova gravidanza, a molti anni dalla prima, che rischiava di rimetterne sottosopra gli equilibri.

In questo caso non suona esagerato affermare che le canzoni che sono andate a comporre “Birthmarks” sono state catartiche e ben rappresentative della moltitudine di stati d’animo che stava provando.

Non troverete in questa raccolta nessuna ninnananna, nè un’ode di benvenuta alla nuova creatura, ma più che altro la fotografia di una donna nel pieno della maturità , alle prese con l’ennesimo grande cambiamento in grado di investire un’intera esistenza; una donna che con la sua musica ci trasmette le sue fragilità  ma anche la sua forza.

Non è un disco facile neanche “Birthmarks” a un primo ascolto, ma appare più variegato nelle atmosfere rispetto al suo predecessore, seppur sempre all’insegna di un pop venato di noir, etereo e sfuggente.

La prima traccia delinea già  il mood dell’intero lavoro, ricco di immagini metaforiche e accostamenti arditi quanto efficaci. Sono gli archi grevi e maestosi a sorreggere dall’inizio la spettrale “Tongues of Wild Boar”, mentre “Orange Tree” pare cullarci in un sogno ma in realtà  è solo un passaggio verso uno dei brani cruciali, la successiva “Through the Dark, Love”, che sin dal titolo lascia intendere che per giungere al tanto agognato amore vero, occorre passare attraverso le tenebre.

Con “Lay Bare” si recuperano alcune atmosfere dreamy dell’album d’esordio, con inoltre delle suggestioni celtiche che rimandano inevitabilmente alla sua Terra. Anche in questo caso, però, si tratta solo di un bagliore di luce prima di venire ricacciati nell’oscurità  di “Mud and Stones”, con la voce appena sussurrata della Nostra a contornare lo spazio glaciale che le si è creato attorno (gran parte dell’album è stato registrato alla fine del 2019 ad Oslo, scenario perfetto a ospitare le composizioni primigenie di “Birthmarks”).

La tensione narrativa e musicale raggiunge il suo vertice con la marziale “The Mouth”, prima di finire avvolta nei sinistri synth della strumentale (e programmatica) “Cleansing Ritual”, che confluiscono a loro volta nella canzone più sofisticata e sognante, una “There is No Moon” in cui Hilary giunge finalmente rappacificata con se stessa alla fine della corsa.

Quei rintocchi del pianoforte diventano battito pulsante non solo di un lavoro altamente “vero” e ispirato, ma anche di una nuova vita che si sta affacciando al mondo.