di And Back Crash

Sul finire degli anni ’70, la rivoluzione inaugurata dalla New Wave sigillò una cesura sulla musica rock come non se ne sarebbero più verificate. Di colpo, il vecchio mondo parve un enorme zoo per dinosauri, decrepite glorie sbeffeggiate irrispettosamente dai discoli del nuovo ordine musicale. In questo humus nacque una piccola sacca di resistenza britannica che provò timidamente a mantenersi in equilibrio tra le due ere, un po’ ironicamente denominata “New Wave of British Heavy Metal”, cui appartenevano, ex multis, Def Leppard, Judas Priest e Motörhead. Gli Iron Maiden di Steve Harris e Dave Murray non furono i primi a finire in questo calderone, ma furono certamente i più longevi e influenti. Dato quindi per morto il genere inventato dai Black Sabbath e aggiornato in più fasi da gente come Budgie e Rainbow, sovrastato com’era dall’ondata punk e post-punk, i Maiden fecero discreta fatica a staccare un contratto per incidere un album che pareva situarsi in un’epoca superata.

Nonostante ciò, il 14 aprile del 1980 vide la luce l’autotitolato esordio ufficiale, ignorando le resistenze di un’industria che avrebbe volentieri prodotto solo variazioni sul tema dominante. I suoi brani più diretti nascono proprio da quel compromesso, un’estrosa commistione fra hard rock e punk che non piacque nè ai seguaci dei primi nè ai fautori dei secondi, ma che finì per fissare un canone stilistico variamente imitato. L’apertura affidata alla selvaggia “Prowler”, con il suo invadente e chiassoso wah-wah, e inframezzata da un sussulto che strizza l’occhio a Genesis e Queen, è la dichiarazione d’intenti del programma; il suo gemello malvagio, il manifesto “Running Free”, inno di strada abbaiato a squarciagola, paga pegno al glitter rock dei T. Rex e alle scudisciate di Alice Cooper, ma è difficile non scorgere il passaggio dei Sex Pistols nei sobborghi della Londra popolare da cui Harris e compagnia provenivano. In coda, “Charlotte the Harlot”, un’altra stilettata lanciata a folle velocità , e l’intramontabile “Iron Maiden” completano questa sintesi fra i generi più provocatori di fine decennio. Clive Burr è un moto perpetuo e riesuma il fantasma di Keith Moon, Dave Murray conia uno stile che farà  scuola; è però la voce roca e sanguigna di Paul Di’Anno a costituire il trait d’union che porta a compimento la palingenesi del rock duro a cavallo fra anni ’70 e ’80.

L’ascendente del tardo progressive dei Rush è forte su “Remember Tomorrow”, ma è il centro dell’album a portare a maturazione i frutti più succosi di un’opera che sarà  seminale tanto per il thrash che per il prog-metal di lì a venire. La teatrale “Phantom of the Opera”, loro personale “Bohemian Rhapsody”, è diretta discendente del glam e delle rock opera concettuali degli anni ’70, ma è anche il capolavoro dell’album e uno dei vertici di tutto il movimento. Costruito come una mini-suite e scansionato in brevi movimenti in cui si alternano registri e ambientazioni senza soluzione di continuità , il brano è un buco nero che inghiotte un’intera generazione di spiriti dannati. Questa capacità  di assorbimento di altrui generi, senza con ciò mollare un millimetro della propria estetica, è tuttora preorogativa e vanto di quasi tutta la sottocultura metal. Lo strumentale “Transylvania” mantiene elevata la tensione con un altro numero di intrattenimento d’alta classe, e “Strange World” si concede un’intrusione estemporanea nel rock psichedelico. Il basso di Steve Harris, mente creativa e vero deus ex machina della band, domina la scena come uno smaliziato direttore d’orchestra, capace di disimpegnarsi con nonchalance sia nelle scorribande più sguaiate che nelle architetture più raffinate.

La sostituzione di Di’Anno con l’urlatore professionista Bruce Dickinson sarà  uno degli eventi più importanti (o traumatici, a seconda dei punti di vista) dell’heavy metal all’alba del suo periodo d’oro, ma la produzione musicale del gruppo si manterrà  su standard qualitativi elevatissimi per almeno tutti gli anni ’80. Chi, come chi scrive, ha sempre fatto fatica a digerire un genere spesso ottusamente tetragono e quasi sempre autoreferenziale, non può che sciogliere le proprie resistenze e lasciarsi indurre in tentazione da questo gioiello di perizia e sincretismo, capace di distendere i tentacoli della propria influenza lungo almeno tre decenni, e che riluccica tuttora di un’ammaliante aura. Tutto sommato, a posteriori, pare ormai tacitamente accettato il fatto che gli Iron Maiden non appartengano esclusivamente alla nicchia che li ha lanciati, ma siano un prezioso e fecondo patrimonio di tutti gli amanti della musica rock.

Iron Maiden – S/T
Data di pubblicazione: 14 Aprile 1980
Durata: 40:53
Tracce: 9
Casa Discografica: EMI
Produttore: Will Malone
Tracklist:
1. Prowler
2. Remember Tomorrow
3. Running Free
4. Phantom of the Opera
5. Transylvania
6. Strange World
7. Sanctuary
8. Charlotte the Harlot
9. Iron Maiden