Secondo album per i Flat Worms,  band composta da  Will Ivy  (Dream Boys,  Wet Illustrated) alla voce e chitarra,  Tim Hellman  (Oh Sees,  Sic Alps,  Ty Segall) al basso e Justin Sullivan  (The Babies,  Kevin Morby), insomma un supergruppo di musicisti con un solido passato artistico alle spalle.

Nei loro lavori precedenti, l’esordio omonimo e l’ EP “Into The Iris”, avevano messo in chiaro uno stile votato ad un garage rock con pennellate di post punk energico e abilmente suonato, che avevano poi brillantemente portato in giro negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in Europa con esibizioni live sempre coinvolgenti.

Il loro ritorno con questo album “Antarctica”, registrato da Steve Albini nel suo studio Electrical Audio di Chicago, non ci mostra nulla di nuovo, il loro sound solido viene riproposto in undici brani, dove il gruppo mostra i muscoli come fanno le band rock e testi in cui una visione nichilista, (ecco il punk) e disperata del mondo e dell’ attuale situazione mondiale economica, politica e ambientale, fanno da cornice alla inevitabile autodistruzione del genere umano, questo presuntuoso e narcisista genere umano che, diciamolo pure, è già  sulla buona strada.

L’album è stato preceduto da due singoli, il primo “Market Forces” , che parte con chitarra e batteria e la voce misurata di Will Ivy e si sviluppa in un pezzo post punk e il secondo, “The Aughts”, che apre anche l’album e che è un bel pezzo, forse il migliore di questo lavoro, con una stupenda chitarra che si lascia andare in assoli psichedelici e intriganti, e un testo sulla caducità  di ogni civiltà  passata e presente.

Se “Plaster Casts” picchia ancora forte, l’arrivo di “Antarctica” abbassa un po’ il ritmo, basso che guida e chitarra che riempie con pochi accordi, mentre il testo ci dice dove forse è meglio trasferire la residenza “….It’s Antarctica Full time living, Antarctica Full time living at the antipode Full time living, Antarctica Some people are fine, some people don’t mind Some people looking for a place to go It’s not a secret when everybody knows Not personal when everybody knows“.

Questo brano è solo una piccola pausa perchè il ritmo riprende già  con “Via” e soprattutto con “The Mine “, in cui la band ricomincia a picchiare a suon di batteria e chitarra, mantenendosi così fino alla fine dell’album.

Arrivo un po’ a fatica fino alla fine, non tanto per la band, che è validissima, ma piuttosto perchè l’insieme di garage punk-rock e cantato post punk offre pochi guizzi veramente degni di nota. Nonostante questo il pezzo finale “Terms of Visitation” cattura comunque la mia attenzione, sia per il suo ritmo incalzante e sia per la chitarra che domina il brano.

L’album si va a collocare nella linea (che conosciamo bene) di quegli album in cui la parte cantata viene sostituita da un recitato o un mezzo cantato in stile vecchio punk,   che ha fatto la fortuna di molte band più o meno recenti come Idles, Art Brut, Amyl & the Sniffers, Life e tantissime altre che ognuno può elencare, ma che è sempre un’arma a doppio taglio, da un lato affascina ma dall’altro rischia di stancare.

Un album che suonato live sicuramente darà  qualcosa in più di un ascolto in cuffia, ma che nel complesso non mi colpisce particolarmente, un lavoro di una band che per quanto abile e interessante non riesce a spiccare il volo.